Il “ProReactive assessment”, sottotitolo “Liquid assessment”

28 Mag

Tra le attività dello “sviluppo organizzativo” l’assessment del potenziale è, forse, quella più delicata. Così come il coltello l’assessment,  se ben utilizzato, aggiunge valore, ma se, al contrario, viene  maneggiato senza la giusta sapienza e maestria rischia di provocare solo effetti negativi.

Un progetto di assessment deve essere pensato con la dovuta cura: aver ben chiaro il campo di utilizzo, dove e chi coinvolgere, le caratteristiche dello strumento e il tipo di intervento, profondità, estensione e intensità. Altrettanto importante è la gestione dei suoi risultati che deve essere coerente con gli obiettivi di partenza e con le modalità con cui è stato erogato: chi ho assoggettato ad assessment, per quale ruolo e con quale scopo, a quale profondità mi sono spinto e quale livello di attendibilità mi ero proposto e ho successivamente verificato.

Un assessment sbagliato, non importa per quale motivo e in quale sua fase, è in grado di arrecare danni profondi, talvolta non visibili immediatamente, sia per l’organizzazione sia per le persone. Non mi dilungo a descrivere, perché evidenti e già affrontati da me in un precedente articolo intitolato “Il lusso dell’incompetenza”, gli effetti deleteri di una assegnazione (o non assegnazione) errata di responsabilità.

Per questo abbiamo ritenuto opportuno provare a riflettere su quali logiche deve poggiare un “progetto di assessment”.

 

La partenza

Il primo punto di partenza è l’individuo: ogni assessment deve essere dedicato a una persona per volta rendendo neutra l’osservazione/valutazione rispetto al particolare contesto sociale in cui si svolge. Ciò non significa che ognuno deve essere valutato in una ipotetica camera iperbarica isolata dal contesto (sociale) esterno, ma che lo stesso contesto (sociale) debba essere accettato come uno degli elementi condizionanti e, a sua volta, neutralizzato. Solo in questo modo è possibile determinare se il suo atteggiamento e le sue potenzialità sono costanti al variare delle condizioni sociali esterne oppure sono una variabile dipendente dalle stesse (il che comunque è una risposta importante).

Il secondo presupposto sta nel fatto che ogni persona è in costante  evoluzione e che, partendo da un “momento della sua vita” certo e noto, sviluppa nel tempo le sue capacità esplicitando con i comportamenti ciò che sa fare bene, ciò che sta imparando a fare e, soprattutto, l’embrione di ciò che potrebbe fare in futuro.

Ci piace pensare che il principio di Lavoiser , “nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”, possa valere anche per le potenzialità professionali di una persona. Siamo altresì certi che per chiunque, anche per i neoassunti, c’è sempre un punto di partenza da analizzare, da cui trarre gli elementi per valutare il set di capacità in fieri (più o meno evidente al momento dell’osservazione).

 

La definizione

Dalla partenza alla definizione del nostro modello di assessment – ProReactive assessment con sottotitolo (o sotto definizione) liquid assessment – il passo è immediato.

Prima però di entrare nel merito della definizione è opportuno soffermarci sulla “sotto definizione”,  che trova il suo senso nella idea che in questo momento sociale ed economico “liquido” (vedi il testo “Modernità liquida” di Zygmunt Bauman) il risultato dell’assessment non può essere una fotografia statica della persona ma, piuttosto, la valutazione dinamica, liquida, della sua stessa capacità di far continue fotografie.

Quale valore può avere infatti l’immagine statica del quadro di potenziale soggettivo, costruita con criteri che, come dice Baumann,  diventano obsoleti un secondo dopo la loro definizione?

Non ha più senso invece valutare quanto l’individuo sia lui stesso in grado di fotografare e definire il rapporto, e le necessità di allineamento, tra sé e il contesto che è chiamato a gestire? Oppure determinare altresì quanto e come è in grado di sviluppare e adattare il suo complesso di capacità e comportamenti a un contesto in continuo cambiamento?

Trasportando nell’organizzazione il concetto espresso da Claude Lévi-Strauss nel suo libro “Il crudo e il cotto”, secondo il quale  il buon scienziato non è chi ha le risposte ma chi sa far le giuste domande (http://it.wikipedia.org/wiki/Claude_Levi-Strauss ),  troviamo centrale determinare non tanto la qualità della risposta statica a una situazione ma la capacità dinamica dell’individuo di trovare le giuste domande cui dare la giusta risposta.

Nella mia esperienza ho potuto constatare quanto il trouble shooting, la ricerca del problema, sia più critica del problem solving, la ricerca della definizione: abbiamo infatti molti manager pieni di soluzioni che cercano il loro problema.

Il ProReactive Assessment si focalizza sulla capacità dell’individuo di interpretare il fluido in cui vive e sulla sua efficacia nell’essere, in quello stesso fluido, un riferimento solido.

ProReactive, la definizione principale, sintetizza la necessità di guardare in modo proattivo, anticipatorio, i comportamenti di domani, e le capacità e i valori che li origineranno, desumendoli da quelli oggi visibili. Un’analisi “proattiva” basata sullo studio di una “reazione” già esplicitamente agita.

Il ProReactive Assessment è il google glass dello sviluppo, l’occhiale nuovo necessario per guardare a oggi con gli occhi del futuro. Con questi occhiali determino se e quanto una persona subisce o ha subito gli eventi, e quanto nel tempo ha invece imparato a gestirli, modificarli e indirizzarli, unitamente alla velocità con cui è passato dall’essere comparsa a protagonista.

 

Le Metacompetenze

Son dunque le metacompetenze il centro del nostro modello: la capacità dell’individuo di costruirsi nuove competenze piuttosto che le competenze che ha già. Noi oggi non possiamo sapere quali competenze saranno critiche domani, sappiamo solo che un buon manager dovrà sapersele costruire, quali che siano. L’impresa chiede alla persona di costruire valore e la persona deve saper rispondere a questa attesa progettando il proprio funzionamento.

Tutto questo è semplice da rilevare, è sufficiente analizzare il già visibile per capire se questa metacompetenza è già parte della persona, a quale livello lo è e a quale velocità si sta sviluppando.

Prendiamo ad esempio la competenza “aggregazione o team building”: i suoi contenuti di ieri non sono uguali a quelli di oggi e di domani; aggregare oggi non equivale ad aggregare domani. Il focus quindi non è sulla competenza, su come una persona sa aggregare e unire la sua squadra oggi, ma sulla metacompetenza, ovvero su come e quanto sa capire quali sono gli elementi di aggregazione (oggi diversi da ieri e da domani) e su come, a prescindere da quali siano, li sa governare. Di come, in sintesi, sa costruire momento per momento il proprio essere team builder.

La differenza è sostanziale: in questo modo si definisce davvero il potenziale di una persona e non si trasla, banalmente e semplicemente, nel futuro il potenziale di oggi, magari visto in una simulazione.

 

Il modello e le sue componenti

Centro del ProReactive Assessment è l’efficacia del sistema persona (soggettivo e individuale), composto da energia, emozioni e conoscenza, nell’agire le proprie capacità. La struttura del ProReactive Assessment poggia su due principi che si ispirano alle idee di Goldberg Elkhonon (vedi “Il paradosso della saggezza”) e di Amartya Sen (vedi “L’idea di giustizia” e la sua teoria sull’etica delle capacità).

Elkhonon sostiene che un cervello maturo è in grado di integrare “pensiero” ed “esperienza”. Il cervello che cresce sa utilizzare sempre e al meglio il complesso di energia, emozioni e conoscenza combinando la sua capacità empatica di leggere persone e fatti con la velocità di intuizione e decisione. Una mente adeguatamente stimolata amplifica la propria performance in senso sia qualitativo sia quantitativo; quante risposte do e quanto valore portano le risposte che do.

Principio uno: valutare come il soggetto cura nel tempo la stimolazione del proprio cervello.

Sen afferma che ogni persona possiede un set di capacità che cresce, si sviluppa nel tempo e si traduce in funzionamenti. Funzionamenti che per agire devono trovare le loro libertà.

In una organizzazione d’impresa è importante che ognuno sappia e possa interagire con il contesto sociale (e organizzativo) a lui esterno, per trovare le libertà positive (la possibilità di agire) e rimuovere le libertà negative (ostacoli all’azione).

Principio due: valutare come il soggetto sa passare dalle idee ai fatti e sa progettare la propria azione interagendo al meglio con il sistema a lui esterno.

Su questi principi abbiamo articolato il modello che va a valutare queste metacompetenze.

  1. Capacità di integrare pensiero ed esperienza. Quanto la conoscenza supporta l’agire e quanto l’esperienza sviluppa a sua volta la conoscenza? Quanto ogni vissuto diventa lesson learned e si trasforma in conoscenza per sé e per gli altri? Quanto la conoscenza modifica  (migliorandola) l’azione?
  2. Gestione della doppia E – Energia Emozione, ovvero Managing the Double E. Qual è il livello di consapevolezza dell’importanza delle proprie emozioni e della propria energia? Quanto si è consapevoli del fatto che emozioni ed energia esistono e caratterizzano l’interazione con persone e processi? Quali strumenti vengono agiti per gestire la propria energia ed emotività?
  3. Empatia. Quanto e come la persona sa entrare in contatto profondo con individui e fatti e ne sa cogliere la vera essenza? Quanto si è in grado di andar oltre la superficie e quanto velocemente ed efficacemente lo si fa? Che tipo di qualità ha il contatto empatico?
  4. Auto motivazione e auto apprendimento. Quanto è in grado di auto sviluppare la propria conoscenza, senza attendere stimoli esterni che, in realtà, si è chiamati più a dare che a ricevere? Quanto il soggetto sa tenere il proprio cervello allenato e permeabile agli stimoli e quanto sa selezionarli? Esiste la contaminazione e l’osmosi: prendo da altri ambiti, prendo da altre persone?
  5. Sistematizzazione progettuale. Quali capacità realizzative ha l’individuo? Come sa passare da un’idea a un risultato nelle tre tipiche situazioni: direttamente da solo, direttamente con una squadra e indirettamente come coach di altri che deve solo supportare e governare a distanza?
  6. Fluidificazione. Quanto una persona sa agire cercando alleati nell’ambiente e progettando azioni e processi fluidi? Quanto è efficace nel rimuovere gli ostacoli autonomamente, senza aspettare che spariscano da soli o che vengano rimossi da altri?

 

Queste le metacompetenze chiave del nostro assessment. Per ognuna ci sono livelli diversi di approfondimento, a seconda del ruolo e del profilo della persona da valutare. Logicamente, a seconda del livello di approfondimento (che si porta dietro ruolo e profilo) desiderato, può cambiare o strumento di valutazione.

Per questa flessibilità il ProReactive Assessment è utile e produce valore (in termini di risultati e indirizzi strategici) a ampio spettro per tutte le discipline tradizionali delle Risorse Umane. Per esempio nella selezione, dove sono evidenti i potenziali risultati, o nella Formazione e Sviluppo, dove l’assessment diventa utile per centrare i contenuti e i metodi evitando sprechi di tempo intelligenza e soldi. Anche la gestione se ne può avvantaggiare grazie ad una maggior comprensione di dove le persone possono dare il meglio, in progetti così come in processi, e massimizzare la loro curva di apprendimento.

Ritengo quindi in conclusione di sottolineare, quasi a monito o istruzioni per l’uso, il tema del livello di approfondimento; esso è un elemento caratterizzante dell’assessement al punto che è pericoloso oltre che inutile paragonare assessment diversi se erogati con livelli di approfondimento diversi.

I vari casi di applicazione confermano e consolidano questo.

Chiudo rimandando ogni ulteriore approfondimento ad un confronto dal vivo utile e necessario per verificare quale livello di “costruzione su misura”  sia richiesto caso per caso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’elemento chiave per un’organizzazione di successo: “la colla organizzativa, the organization glue”

16 Mar

Capita di avere dei frammenti di idee che vagano in modo indefinito nella mente in attesa che giunga il loro momento per crescere e diventare comunicabili. Ascolto Yanny da più di 20 anni ma quando poco tempo fa, un tassista a Mosca ha lanciato sul suo tablet / tassametro questo suo concerto del 2006, alcuni  frammenti hanno iniziato a ordinarsi e comporsi dando origine ad un’idea completa sulla “colla organizzativa – the organization glue -.

Yanny Concert 2006

http://www.youtube.com/watch?feature=player_detailpage&v=VppUsXzbUkY#t=153

Ciò che segue è l’esempio del “pensiero circolare”, oggetto di un mio precedente articolo di questo blog. Il “pensiero circolare” è, infatti, la descrizione di come un segnale inizialmente debole, una sensazione o un’intuizione, prenda forza per diventare piano piano un pensiero compiuto e, con l’ausilio di immagini e suoni, trasformarsi in linguaggio  comunicabile. L’idea di colla organizzativa per prender forma si è servita di una pluralità di elementi: suoni, immagini, ricordi, emozioni, conoscenza implicita ed esplicita, parole e momenti di razionalizzazione.

Ma vengo al punto, all’origine di tutto due sensazioni: l’ansia di rappresentazione che può investire chi si occupa di organizzazione e la continua ricerca dello strumento giusto per la rappresentazione perfetta.

Il concerto di Yanni 2006 ha funzionato da attivatore del processo grazie alla sua capacità di rappresentare l’organizzazione ideale, quello che ogni manager vorrebbe nella propria azienda: ritmo, armonia, azione e valore.

Armonia tra creatività ed disciplina, positività e serenità nella fatica e l’impegno, tensione verso l’obiettivo, attenzione al cliente e contatto continuo con lo stesso, programmazione che libera improvvisazione, diversity management (fate caso al livello della diversità nel gruppo dai vestiti alle etnie agli stili). E inoltre perfetta sintonia e sincronia tra la dimensione del gruppo e quella delle molteplici individualità: il gruppo non si annulla nell’individuo ma allo stesso tempo l’individuo non si annulla nel gruppo ed emerge con forza trascinando l’insieme.

L’organizzazione che funziona è un luogo dove ci si aggrega (come somma di individui o come unione di altri gruppi più piccoli), senza perdere la propria soggettività continuando a vivere autonomamente trovando il modo di esprimere tutta la propria carica di energia e creatività.

L’organizzazione non deve essere progettata e gestita per appiattire le identità individuali. Il farlo è una “scorciatoia manageriale” percorsa solo da chi vuole evitare la fatica o l’impegno di gestire e armonizzare queste individualità. Chi mi ha letto sa che ritengo pigrizia e paura due nemici perfidi da combattere e annullare se si vuole costruire valore.

La ha paura dell’individualità porta al desiderio di annullarla. Noi siamo individui che cooperano che però conservano il bisogno di sentirsi protagonisti attivi della propria vicenda personale, anche e soprattutto in una organizzazione d’impresa. Ovviamente ognuno con le proprie gradualità e coerenze.

La chiave di successo dell’organizzazione non sta nell’annullamento degli obiettivi individuali, in nome di un obiettivo generale, bensì nella costruzione di un interesse comune coerente con le aspirazioni individuali. L’organizzazione aggiunge non toglie.

Chi è costretto ad annullare la propria individualità per entrare nel gruppo, vedrà crescere dentro di sé un rancore, che alla lunga si trasforma in una zavorra per il gruppo stesso.

Affronterò questo tema successivamente in modo più approfondito riflettendo sul fatto che forse il vero team building è prima di tutto un’azione individuale.

Il team funziona se chi vi partecipa è in equilibrio con se stesso e sa trovare con gli altri sintonia e armonia, lavorando per gli altri e per se stesso contemporaneamente senza contraddizioni.

E quindi?

Come si fa a replicare la stessa organizzazione di successo espressa dal concerto di Yanni?  Semplice è sufficiente definire i suoi due elementi chiave: il nucleo e la colla.

Il nucleo. Il nucleo è l’elemento centrale attorno al quale prende forma  l’organizzazione, la colla è ciò che fa vivere quella forma, legando assieme tutti gli elementi che la compongono.

La mia idea di nucleo prende spunto da ciò che Armatya Sen esprime nel suo libro “L’idea di Giustizia” riguardo all’approccio alle capacità.

Il nucleo di una organizzazione è quell’interesse comune che muove e orienta l’azione di tutte le persone che vi partecipano. E’ l’interesse comune originato dal desiderio di sentirsi protagonisti della propria vita, in modo dinamico evolvendo il proprio essere nel tempo, declinabile in “essere nel sistema, fare ciò che si è in grado di fare, aumentare le proprie capacità, scegliere (poter scegliere), sentirsi protagonisti, evolvere nel tempo”.

La colla. La colla è, invece, la vita dell’organizzazione, ciò che abilita le azioni, i verbi, contenuti nella definizione di nucleo: “essere nel sistema, fare ciò che si è in grado di fare, aumentare le proprie capacità, scegliere (poter scegliere), sentirsi protagonisti, evolvere nel tempo”.

I musicisti diretti da Yanni ci trasmettono questa precisa sensazione: sono lì contenti di esserci consapevoli di essere se stessi e di far qualcosa di valore che li rende riconoscibili inequivocabilmente ed istantaneamente.

La mission di chi si occupa di organizzazione è questa, trovare nucleo e colla e non perdersi negli organigrammi concentrandosi sulla formalizzazione. Non è dibattere se sia meglio l’organizzazione a matrice o quella piramidale, spendere ore per scrivere una job description. Attività a volte, forse, necessarie ma con utilità limitata.

Vi siete mai chiesti perché non esiste una risposta a quanto forti devono essere i legami gerarchici rispetto ai funzionali oppure perché ci sono aziende che periodicamente passano dalla piramide alla matrice e viceversa? La risposta è che non esiste il sistema organizzativo perfetto, soprattutto se il modello a cui tendiamo è solo formale.

La formalizzazione illustra il sistema organizzativo, non lo regola: chiarisce, o meglio prova a chiarire, il livello di interazione e connessione tra le persone, le responsabilità ed i processi. Conoscere e saper utilizzare tutti gli strumenti di analisi e rappresentazione, la catena del valore di Porter, la flow chart, il ciclo dei workflow, etc, è indispensabile per chi si occupa di organizzazione ma non basta. Sarebbe come se scrivere un bel menù, descrivendo cosa mangio, fosse sufficiente per alimentare il nostro organismo.

Rappresentare è a volte, sottolineo a volte, opportuno ma di certo non  sufficiente perché non ci aiuta a trovare né nucleo né tantomeno colla.

Per trovare questi due elementi serve una visione sistemica e sostanziale dell’organizzazione: sistemica e dinamica.

L’organizzazione va vista per quello che è: un sistema di persone che si aggregano e si integrano in armonia per massimizzare il loro contributo esaltando la propria individualità ma rispettando soggettività altrui con le stare in equilibrio.

Il video ne dà una rappresentazione fisica: un fluire di emozioni e decisioni che danno luogo a processi, tra loro sincronizzati, che producono altissimo valore.

Ogni persone entra nel sistema portando idee, emozioni, pensieri, conoscenze, capacità, strutture caratteriali, funzionamenti (comportamenti) principi e valori, e nel sistema ognuna di queste variabili si incrocia e si relaziona e, a volte, si aggrega. Pertanto all’interno del sistema coesistono soggetti individuali e soggetti aggregati: entrambi partecipano alla produzione del valore per i clienti, diretti e per quelli indiretti (la comunità sociale).

E’ la colla organizzativa che lega tutte le componenti del sistema e le fa lavorare assieme.

Come si trova la colla?

L’organigramma è una illusione ottica; sta alla colla quanto lo schema di istruzioni di un kit di montaggio sta all’oggetto finito. Molto spesso l’organigramma è una proiezione di nostri desideri più che una rappresentazione della realtà. L’Organization Network Analysis lo dimostra perfettamente quando rileva che i nodi reali dell’organizzazione sono diversi da quelli elencati nell’organigramma.

E non ci aiutano neanche Porter o il paradigma del workflow perché si focalizzano solo su una parte del sistema, i processi il primo e il cliente e i processi il secondo.

Serviva quindi un altro modello e siccome non c’era ce lo siamo costruiti: HelloPitagora.

HelloPitagora non sostituisce gli altri modelli li completa ed integra in una visione più ampia e coerente del sistema. HelloPitagora trova la colla dell’organizzazione, ne misura la forza e l’efficienza. Più la colla è forte più l’energia introdotta nel sistema (idee, emozioni, pensieri, conoscenze, capacità, strutture caratteriali, funzionamenti -comportamenti- principi e valori) resterà attaccata al nucleo trasformandosi in valore per l’organizzazione e per l’impresa.

HelloPitagora individua e misura i fattori che possono concretizzare i concetti espressi nel nucleo: “essere nel sistema, fare ciò che si è in grado di fare, aumentare le proprie capacità, scegliere (poter scegliere), sentirsi protagonisti, evolvere nel tempo”.

Parto dall’ “essere nel sistema” che si può tradurre in “poter scegliere di esserci liberamente”.

La libertà di scelta è il centro del mio ragionamento e mi porta al primo elemento chiave, l’informazione. Libertà di scelta significa comprendere bene obiettivi, principi, contesto, risultati attesi, compagni di viaggio etc.

La prima molecola della colla organizzativa è dunque il complesso di informazioni che permettono all’individuo di scegliere se “esserci o no”.

In ogni momento, ogni persona dell’organizzazione deve sapere dov’è e cosa la sua organizzazione vuole da lui: le regole del gioco, il tragitto da compiere, i mezzi per percorrerlo e cosa lo aspetta alla fine.

Quante organizzazioni hanno davvero a cuore questo momento e quante invece lo liquidano con una newsletter o attività similari (esempio convention)?

Comunicare non è sufficiente, è necessario farsi comprendere veramente e senza l’ombra di un “ragionevole” dubbio: solo chi comprende veramente sceglie liberamente e consapevolmente.

Se comprendo scelgo e aderisco (o non aderisco): la seconda molecola è quindi l’adesione. Solo chi sceglie di aderire ad una organizzazione vi porterà tutta la sua energia. Ingannare per farsi scegliere (vale per entrambi organizzazione e individuo), forzare la scelta oppure ancora non comprendere il vero livello di adesione sono errori che l’organizzazione, e l’individuo, rischiano di pagare a caro prezzo.

L’organizzazione ha il dovere di spiegarsi e farsi comprendere ma poi ha il diritto di scegliere solo chi aderisce liberamente ad essa e di abbandonare chi, anche se per ragioni legittime, non è nelle condizioni di farlo. Tanto più libera è l’adesione tanto più forte la colla, tanto più alta l’energia che si trasformerà in valore.

Non importa se una persona è in una casella di una matrice o di una chart a piramide, ma piuttosto se in quella casella (e in tutto ciò che essa rappresenta) ha voglia di esserci oppure no, sapendo cosa comporta esserci.

La terza molecola di cui si compone la colla è relativa al “Fare ciò che si è in grado di fare, aumentare le proprie capacità, evolvere nel tempo”.

La somma delle capacità di una persona sono la misura del suo valore, per sé e per gli altri. Più ampio è il ventaglio di capacità potenziali di una persona maggiore è la sua sensazione di esistere e di essere libero.

Con le prime due molecole, comprensione e l’adesione, persona e organizzazione definiscono il loro contratto: voglio essere qui per realizzare questi obiettivi e so cosa tu, organizzazione, ti aspetti da me.

La terza molecola, così come vedremo la quarta, è connessa alla realizzazione di quel contratto. Dal passare al cosa ho compreso e ho scelto di fare, l’aspirazione, al come posso farlo, e nello specifico, a quali sono le mie capacità per farlo.

Sono la competenza, la capacità e la conoscenza che possono trasformare una ambizione, aspirazione, in un fatto concreto.

Va detto che è molto difficile separare i momenti, le molecole della colla, è una forzatura che mi serve per poterli spiegare e descrivere. Così come la colla vera anche quella organizzativa è il risultato di più molecole che si fondono in un’unica sostanza cessando di essere elementi separati.

Se quindi l’adesione è condizionata dalla comprensione e viceversa, sono infatti più disponibile a comprendere se già penso di aderire. Allo stesso modo l’adesione è condizionata dalla capacità, aderirò più facilmente a qualcosa che sento nelle mie corde e penso di essere attrezzato per fare. Potrebbe però anche capitare che l’adesione avvenga in assenza di capacità specifiche ma invece che sviluppi una forte motivazione ad acquisirle; in questo caso è la conoscenza che viene condizionata dall’adesione.

Ci sarà quindi un incontro mediato tra organizzazione e capacità: da un lato l’organizzazione sceglierà chi possiede le conoscenze necessarie per i suoi obiettivi, o abbia una forte motivazione ad acquisirle, dall’altro però dovrà mettere a disposizione delle persone tutti gli strumenti per continuare il processo di apprendimento.

Il mantenimento della libertà di scelta, che ripetiamo essere centrale, è  strettamente connesso al possesso delle capacità o alla consapevolezza di poterle acquisire in un tempo definito. Ciò che conta spesso non è quello che la persona realizza ma quello che potrebbe essere in grado di realizzare.

Amartya Sen sposta l’attenzione dai risultati effettivi a quelli potenziali. Aggiungo che l’organizzazione è un sistema dinamico e non può fermarsi alle competenze del momento ma deve costantemente riflettere su quali capacità le serviranno in futuro.

Paradossalmente l’organizzazione di successo è quella che prepara le proprie persone talmente bene da farle diventare oggetto di desiderio dei competitors: solo in questo modo avrà la prova che chi rimane lo fa per scelta e non per costrizione, perché obsoleto e senza alternative

Quarta molecola ciò che Sen chiama le libertà di fare e trasformare le proprie capacità in funzionamenti: “fare ciò che si è in grado di fare”. Cosa sono le capacità senza i funzionamenti? Sia l’individuo che l’organizzazione esistono per funzionare e produrre un valore per i clienti.

Il sistema di processi è stato molte volte identificato con l’intera organizzazione: esso ne costituisce invece la sola parte meccanica che deve abilitare e fluidificare il passaggio da potenzialità a realtà.

Porter prima, Hammer e Champy poi hanno dato un importantissimo contributo per gestire al meglio questa componente dell’organizzazione e progettare un sistema tattico realizzativo coerente con il resto.

Il legame con la terza molecola le capacità è talmente ovvio che sarebbe superfluo soffermarci: i processi sviluppano capacità che a loro volta migliorano i processi.

Come ho già espresso in altri articoli è nell’unione delle due componenti dell’organizzazione, organica e meccanica che ritroviamo la teoria di Lowen sulla Bioenergetica e sulla necessità che mente e corpo siano in equilibrio.

Come nell’essere umano anche nell’organizzazione, corpo e mente sono interconnessi e si condizionano vicendevolmente. Il malessere di uno può trovare origine, e soluzione, nell’altro.

Quinta molecola i risultati. Le persone hanno la necessità di saper quali risultati ha prodotto la loro azione e in che misura questi si relazionano a quelli dell’intera organizzazione. Per questo motivo collego la necessità di sentirsi protagonisti con la consapevolezza dei risultati. Un’organizzazione ha il diritto di sapere quanto ogni suo componente produce ma allo stesso tempo vale il contrario.

Questo è importante non solo per la consapevolezza del proprio agire ma anche per il miglioramento continuo. Solo chi si misura potrà migliorare e abbiamo già definito come l’evoluzione nel tempo sia un altro elemento portante del nucleo.

Conoscere i risultati propri e dell’organizzazione è una forte leva motivazionale: se sono positivi daranno la giusta dose di entusiasmo, in caso contrario invece se gestiti bene potrebbero dare la motivazione ad acquisire nuove competenze.

L’organizzazione deve quindi saper leggere i risultati, aggregarli e disgregarli in modo coerente e comunicarli costantemente ed esaustivamente.

Sesta e ultima molecola la dimensione sociale. Questa molecola assomma tutto quanto detto finora. Oggi i sistemi sociali non sono chiusi e se da un lato ogni organizzazione si deve confrontare con la comunità in cui è inserita dall’altro le persone stesse attraversano più sistemi all’interno della comunità stessa. L’essere protagonisti, la sensazione di esistere e tutti gli altri verbi del nucleo travalicano i confini dell’organizzazione per estendersi al suo esterno. L’elemento collante che ne deriva è quindi la possibilità di essere sì nel sistema organizzativo, con il complesso di diritti e doveri fin qui descritto, ma di essere protagonista anche nella società. Più una organizzazione produrrà effetti positivi per la comunità più le persone che ne fanno parte si sentiranno motivati ad aderire e realizzare valore. Concetto che nella dimensione individuale si declina nella possibilità di produrre valore contemporaneamente per la propria organizzazione e per la comunità esterna.

Questo è HelloPitagora, un modello concettuale ma anche uno strumento per indagare la forza della colla organizzativa e al tempo stesso per progettare quali azioni di miglioramento mettere in campo per far funzionare l’organizzazione esaminata.

Questo sia per organizzazioni esistenti, che devono essere analizzate, che per quelle nuove, che disegnerò focalizzando la mia attenzione su come massimizzare l’effetto collante partendo dalle singole molecole prima e combinandole al meglio dopo.

Ma perchè un leader deve conoscere le dinamiche sociali? Il Solido Fluido e il sistema sociale,

18 Set

Lo scienziato non è l’uomo che fornisce le vere risposte; è quello che pone le vere domande.

 

 (Lévi-Strauss Claude Il crudo e il cotto   2008  Il Saggiatore Tascabili  (collana Saggi))

 

Le giuste domande

La leadership non è un esercizio introspettivo autoreferenziale: il suo valore è per la società, il suo lavoro si svolge nella società. Il leader in generale, ma in particolare il Solido Fluido mette al centro la sua capacità di integrazione con il sistema sociale e la capacità di divenirne un elemento organico ed incisivo: pertanto pur non dovendo essere un sociologo (la lettura è propedeutica all’azione), con la sociologia deve sapersi confrontare e dialogare.

In una scena del film “Cuori al verde” (Cuori al verde, film di Giuseppe Piccioni 1996 http://it.wikipedia.org/wiki/Cuori_al_verde) l’idraulico anziano, il capo Gene Gnocchi, cerca di spiegare all’apprendista, Giulio Scarpati, che l’abilità di chi esiste con e per gli altri consiste nell’intuire e prevedere le “traiettorie”, degli uomini e degli attrezzi, per riuscire a sintonizzare il proprio movimento e massimizzandone gli effetti positivi. Il Solido Fluido intuisce le traiettorie, le “traiettorie sociali” i flussi tangibili ed intangibili che nascono dall’azione di una o più persona.

E lo fanno non grazie alla fortuna genetica (predestinati dalla nascita) ma a fronte di un duro lavoro su se stessi per sviluppare e affinare una propria sensibilità sociale interrelazionale necessaria per indagare e analizzare.

La civiltà della fretta e dell’immediato ci sta disabituando a riflettere sui regimi causa – effetto del nostro vivere: abbiamo cancellato, per presunzione e pigrizia, il momento “trouble shooting” (ricerca del problema) a favore di una immediata, ancorchè illusoria fase di  “problem solving” (ricerca della soluzione). Soluzioni immediate veloci che nessuno verifica una volta applicati. Siam diventati gommisti che riparano il pneumatico senza cercare la falla e, forse ancor peggio, senza verificare se la ruota recuperà le sue funzionalità. Le Organizzazioni – pubbliche e private, si son trasformate nel luogo del  “we have a lot of solutions in search of their problem” (abbiamo tante soluzioni che cercano il loro problema): per un analista diventa più importante avere una valigia di soluzioni pret a porter piuttosto che la capacità di comprendere e costruire. Per questo farsi le domande giuste è un processo da recuperare, senza il quale il successo della soluzione sarà  puramente casuale, e non causale. Un divertente gioco di parole che può originare più di un problema.

 Anche le imprese non sfuggono a questa logica: un’azienda altro non è che un sottositema sociale, un pezzo di società con obiettivi precisi. L’impresa infatti non entra in contatto con la società solo attraverso il mercato (clienti o fornitori): la moltitudine di persone che ogni giorno varca, fisicamente o virtualmente, il portone della propria impresa non cessa di essere un  elemento del sistema sociale ma continua a interagire con esso.La leadership prescinde dall’ambito in cui la si esercita ma non dal saper leggere quell’ambito e il sistema generale in cui è inserito.

Il “Solido Fluido” sintonizza il proprio pensiero e movimento con le traiettorie sociali che osserva, traccia i vincoli, individua gli appigli, rileva le opportunità, memorizza le trappole:  costruisce la sua strategia. Come un rocciatore che  prima della arrampicata, osserva e interpreta la parete, decide l’attacco e traccia mentalmente la via da tentare. Egli però sa mantenere vigile l’attenzione ed è pronto a cambiare, in modo fluido, i propri piani: una via definitiva che non sarà mai chiara.

 Il sistema sociale

Partiamo dalla base: cosa significa Sistema Sociale? Nel mio pensiero è lo spazio dove si incontrano e interagiscono le persone fatte di cuore e cervelli visibili attraverso i pensieri ed i comportamenti: il confronto-scontro di di idee, emozioni e azioni, la sovrapposizione di più  dimensioni individuali che concorrono a formare quella aggregata e collettiva. Prendendo in prestito Heisenberg (http://it.wikipedia.org/wiki/Principio_di_indeterminazione_di_Heisenberg) nel sistema sociale l’individuo condiziona il gruppo e viceversa.

(nota: il principio di indeterminazione di H dice che l’osservatore condiziona l’oggetto da osservare e quindi man mano che ci si avvicina ad esso più difficile diventa capirne la reale vita.

Il sistema sociale è il luogo dove le capacità soggettive diventano funzionamenti collettivi.

(funzionamenti è il termine che Amartrya Sen utilizza per definire la traduzione in azione delle capacità dell’individuo – L’idea di giustizia  Amartya Sen 2010 arnoldo mondadori spa milano)

Al suo interno, quindi, si creano e sviluppano i legami interattivi, i diversi  soggetti individuali si muovono originando aggregazioni, o unendosi a quelle già formate, con altri soggetti, in una forma geometrica variabile più o meno stabile nel tempo. Per Bauman  (Zygmunt Bauman Modus vivendi, inferno e utopia del mondo liquido 2007 Gius Laterza e Figli) ci troviamo in una condizione nella quale le regole e i modelli sociali mutano più velocemente della nostra capacità di assimilarli, impararli e interpretarli. In questo contesto i legami interumani sono sempre più fragili e di fatto temporanei.

Si configura quindi un sistema complesso molto simile a un insieme di bolle, di dimensione e spessore diversi che, in un moto in parte causale e in parte casuale, entrano in contatto tra loro, a volte respingendosi a volte sovrapponendosi, a volte divergendo o procedendo parallelamente. Le bolle sono quindi una metafora dei sistemi e dei sottosistemi sociali quali, ad esempio, le comunità locali, la famiglia e le organizzazioni alle quali partecipiamo e con le quali interagiamo.  Le singole persone entrano nelle bolle, talvolta sostandoci, talvolta per attraversarle o per farsi trasportare: causalità e casualità si mischiano.Le connessioni tra gli individui formano i nuclei di rete ( estesa di contatti e relazioni oltre il significato di web) che partecipano alla costruzione della rete di reti che si sovrappone alla geometria delle bolle. Il moto delle bolle condiziona la struttura delle reti e viceversa.

Alessandro Manzoni: fu vera leadership? Il Solido Fluido un nuovo modo di essere leader

16 Set

“Si racconta che il principe di Condè dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi: ma, in primo luogo era molto affaticato; secondariamente aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la mattina. Don Abbondio in vece non sapeva altro ancora se non che l’indomani sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose” (Alessandro Manzoni : I promessi sposi Sansoni Editore Nuova S.p.A. – Firenze, prima edizione 1951 ristampa nella “Nuova Carducciana” 1985) 

Un fluido senza consitenza si comporta come Don Abbondio: travolto dagli eventi scorre subendo inclinazione, ostacoli e deviazioni. Il Solido Fluido che vorrei descrivere in questo libro, mantiene, al contrario, la stessa determinazione lucida del Principe di Condè nelle molteplici Rocroi che si susseguono, sovrappongono e intrecciano. Il Solido Fluido la nuova frontiera della leadership, non una contraddizione in termini, non un gioco di parole: è l’idea contenuta nel  “Tao Te Ching”. Una via chiara non è mai definitiva. (Thomas Clearly, L’arte Giapponese della guerra- Arnoldo Mondadori, edizione Oscar saggi 1993).

Lo stato d’animo del Principe di Condè è quello del leader contagioso che tranquillizza, aiuta ad affrontare e sconfiggere le nostre paure,  rasserena il nostro pensare e agire: si eleva a riferimento affidabile. Il Principe vinse quella battaglia passando dagli intenti ai risultati.

É noto, invece, il destino  “poco eroico” di Don Abbondio, la cui partecipazione alla società era come quella di un vaso di terra cotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. (Alessandro Manzoni : I promessi sposi Sansoni Editore Nuova S.p.A. – Firenze, prima edizione 1951 ristampa nella “Nuova Carducciana” 1985)

Se per il Manzoni il lettore deve aver sempre costante il confronto tra la figura luminosa dell’eroe e il pavido (come afferma nelle note Momigliano), per chi aspira ad essere leader deve essere chiara la scelta tra il dominare con coraggio, consapevolezza e competenza gli eventi o sfuggirli, aggirarli o subirli, per debolezza, fragilità o furbizia.

La consapevolezza porta serenità; al contrario il suo opposto, l’inconsapevolezza, per superficialità o malafede, comporta  angoscia e negatività per sè e per gli altri.

Il leader non solo sa dormire i sonni tranquilli (del Principe) ma crea le condizioni perchè lo facciano anche gli altri.

La consapevolezza non arriva per caso: obiettivi coerente, mai azzardare battaglie impossibili, progetti idonei, organizzazione adeguata, competenze necessarie, attenta misurazione dei risultati.

Ce lo insegna Miyatomo Musashi nell’introduzione al suo trattato sulla strategia e sulle arti marziali dove dà le istruzioni per essere un bravo guerriero:

  • pensate a ciò che è giusto e vero
  • mettete in pratica la scienza
  • eruditevi nelle arti
  • eruditevi nei mestieri
  • comprendete le qualità positive e negative di ogni cosa
  • imparate a vedere tutto accuratamente
  • prendete conoscenza di ciò che non è ovvio
  • prestate attenzione alle cose futili
  • non fate nulla di inutile

(Thomas Clearly, L’arte Giapponese della guerra- Arnoldo Mondadori, edizione Oscar saggi 1993)

Allo stesso modo il “sonno agitato”, per sè ma ancor peggio per la propria squadra, non viene dal nulla, da una ipersensibilità emotiva o dal precipitare, o mutare, degli eventi. Superamento del limite di Peters (non si possiedono le capacità richieste), scelta della strada più comoda e veloce, saltando uno o più passaggi della lezione di Musashi. 

Laurence J. Peter – Raymond Hull, Il principio di Peter. Perché il vostro superiore è un incompetente? Questo libro vi dà la risposta, Milano, Calypso, 2008) (Thomas Clearly, L’arte Giapponese della guerra- Arnoldo Mondadori, edizione Oscar saggi 1993)

 Se questo diventa lo stato d’animo prevalente, è il segno che il percorso verso la leadership non è completo ma ci presenta un bivio: il rombo del “what if” con una doppia scelta. La prima, quella del “consapevole sotto attacco” che lo conduce, da solo o con con il supporto di un coach, verso il perchè dell’ansia e all’acquisizione di nuove competenze. La seconda del  “guarda e passa” che con superficialità lo porta a cancellare la lezione, senza passare dal vissuto alla conoscenza, alleggerendo la propria “coscienza manageriale”, magari scaricando su altri le proprie colpe e le proprie tensioni. E’ questo un “non leader”, colui che sceglie i più diversi accomodamenti, confida nella casualità e tenta di truccare le carte.

Se netta è la distinzione tra i due approcci altrettanto difficile però è stabilire la separazione tra buoni e cattivi. Chi ha ruoli manageriali (di gestione e di governo di persone, risorse, eventi, idee, programmi – l’oggetto è irrilevante rispetto all’azione gestionale) ha fatto passi nell’una e nell’altra via. Se però, come sostiene Elkhonon Goldberg, nel suo Paradosso della Saggezza, una mente attiva e adeguatamente stimolata non deve temere l’invecchiamento, la mente del leader deve saper continuamente leggere gli eventi che vive e ricondurli lungo la via virtuosa dell’apprendimento.

Le notti prima degli esami sono agitate per chi non ha studiato o, in virtù della sua inesperienza, è ancora inconsapevole della propria forza. (Elkhonon Goldberg, Paradosso della Saggezza edizioni Ponte alle Grazie  (collana Saggi))

Tempo fa un collega, con il quale mi stavo confrontando su questo tema, mi esprimeva una sua perplessità, confortato anche da più di una ricerca in merito, riguardo al fatto che le decisioni giuste avvengono più  per intuito che per approfondimento e studio. C’ è infatti chi sostiene che il manager di successo si basi più sull’istinto che sulla conoscenza. Se così fosse il principe di Condè sarebbe stato perdente in un confronto con un manager “intuitivo”.

Ritengo questa tesi inesatta oltre che pericolosa. Pensare di possedere doti initelleggibili e intuito infallibile, magari confortati da successi raggiunti in virtù di eventi esogeni non replicabili e ritenere  superflui studio e preparazione, porta velocemente e inesorabilmente verso il baratro. La sicurezza senza consapevolezza è un’illusione.

I successi intuitivi si spiegano in altro modo: il presunto intuito altro non è che la capacità di acquisire prima di altri gli elementi di conoscenza. Esistono infatti individui che a seconda del contesto (spazio temporale) possiedono, a volte senza esserne coscienti, la conoscenza necessaria e sufficiente per decidere e agire, o sono dotati di velocità di analisi e capacità di apprendimento di un ordine superiore. In entrambi i casi raggiungono prima e meglio alla serena lucidità del principe di Condè;  d’altronde non ci è dato di sapere il tempo con il quale egli aveva preparato la battaglia prima di potersi permettere di dormire.

Con un salto in avanti fino al 1982, mundial spagnolo passiamo dal Manzoni a Paolo Rossi, un campione al quale tutte le persone della mia età sono. Il suo intuito non era fortuna ma velocità di pensiero, ed era replicabile (lo dimostra il numero dei gol che segnò). Egli divenne famoso per i suoi gol di rapina, a prima vista, quasi casuali: nulla di più sbagliato. I gol li segnava perchè sapeva cogliere le opportunità, scegliendo il tempo e lo spazio per il suo intervento. Paolo Rossi era in grado di leggere gli eventi e lo sviluppo dell’azione in anticipo sugli altri. Non era fortunato ma capace, non si muoveva a caso ma con cognizione.

Il governo degli eventi, e delle persone coinvolte, significa saper  studiare e preparare la battaglia “gestionale” e aver acquisito, nel tempo, la capacità di farlo in velocemente anticipando il sistema concorrente. Allenare la tecnica e la forza per aumentare la velocità, imparando dagli eventuali errori e riflettendo, sempre su ogni singola esperienza.

Questa è la Solidità Fluida: ricombinare le proprie capacità rapidamente adattandole al ritmo turbolento del cambiamento e componendo il miglior “set” possibile di pensieri e comportamenti per quel preciso obiettivo in quel particolate contesto spazio-temporale.

Ho sempre trovato affascinante il caleidoscopio: per quanto velocemente lo si giri e modifiche l’immagine che ci regala è sempre perfetta, netta e chiara. Il suo limite è quello di avere un numero finito di combinazioni, essendo pur sempre un oggetto. Chi sa essere Solido Fluido, chi persegue “la via chiara non definita” del guerriero, è un individuo pensante e può sviluppare infinite forme di solidità che si susseguono e articolano nel tempo. Certo la “conditio sine qua non” è il possedere gli elementi fondamentali da ricombinare e adattare.

Dopo queste considerazione si sente la necessità di un percorso necessario alla costruzione della solidità fluida: un progetto di “ingegneria della leadership”.

Progetto che, partendo dalle condizioni al contorno, il regime di vincoli, di questo momento socio-economico, persegue l’acquisizione di lucida serenità del principe di Condè, in presenza non di una Rocroi ma di una serie di battaglie che si affacciano nello stesso momento nella vita di chi ha il difficile mestiere di gestire (o alla maniera inglese di essere manager).

Il metodo di analisi e le riflessioni sono figlie delle mia esperienza di Ingegnere, che si è sempre occupato nei 20 anni di azienda, di gestione di persone, processi e organizzazione. Un iniziale approccio logico analitico contaminato dal desiderio di comprendere i fattori condizionanti la mente ed il comportamento dell’uomo. Non una velleitaria incursione in discipline quali filosofia, sociologia,  psicoanalisi e pscicologia ma, al contrario il tentativo di importare dalle scienze che studiano l’uomo ed il suo pensiero ciò che è utile e indispensabile.

Il contesto sociale è cambiato, le certezze della solidità passata si sono perse nella liquidità moderna  (Zygmunt Bauman Modus vivendi, inferno e utopia del mondo liquido 2007 Gius Laterza e Figli), dobbiamo evolvere il concetto di leadership, uscire dalle zavorre concettuali che ci avvolgono da più di 20 anni e che, per il loro essere fuori dal tempo, evidenziano ogni giorno la loro stanchezza.

La Solidità Fluida deve definire i suoi tre nuovi modi di saper: sapere, saper fare e saper essere.

Sapere, cosa deve sapere chi aspira alla Solidità Fluida, i due silos di consocenza da riempire e far comunicare: il contesto sociale in cui opera e le aspettative rispetto alla sua azione. Cosa ci si aspetta che lui ottenga e soprattutto in quale ambito e contesto: vincoli e opportunità. Quali quante le Rocroi da combattere e quando si può dire di averle vinte.

Saper fare: trovare l’equilibrio tra le quattro forze della solidità fluida. La dinamica ricerca del baricentro di un immaginario rombo unione dei quattro punti di pressione: sviluppo delle Capacità, governo del Sistema (progettazione e messa in opera), gestione delle Relazioni, Spinta verso il nuovo e il distintivo. Forze diverse con intensità variabile ma con pari dignità.

Saper essere: le dimensioni dell’essere del Solido Fluido. Come costruire la personalità di un punto di riferimento, per se stesso innanzi tutto (fattore che spesso viene trascurato) e per gli altri. Il saper essere gentile, aggregante, osservatore, visionario e, infine equilibrato  connettendo cuore cervello.

Dai tre saperi la logica deduttiva ci porta a a costruire delle metafore visibili e applicabili all’organizzazione. I punti di “attacco” per la gestione di una organizzazione, la nuova catena del valore e i fattori chiavi di successo, misurabili, dell’azione di governo e gestione traducendo la strategia in tattica misurandone gli effetti. In successione il modello di competenze risultante e coerente col modello di leadership definito.

Un primo passaggio dedicato al sistema organizzativo e alla catena del valore di hello pitagora, i Kpi e il metodo di misurazione  e al concetto del capitale umano utilizzato vero indicatore della capacità di leadership agita in una organizzazione.

Un secondo concentrato sulla persona i suoi comportamenti e le sue competenze. Un nuovo e originale modello di competenze.

Il primo argomento è già stato oggetto di miei articoli precedenti presenti in questo Blog, sul secondo avrò modo di scrivere qualcosa in futuro.

la bioenergetica organizzativa

2 Lug

 

L’incontro quasi casuale con il libro “Bioenergetics” di Alexander Lowen (Penguin 1975) mi ha dimostrato una volta di più l’importanza della contaminazione tra i diversi saperi dell’uomo, e mi ha permesso di chiarirmi alcune riflessioni sul tema a me caro: l’organizzazione e la gestione delle persone in azienda.

Leggendo il libro mi son reso conto dell’applicabilità del pensiero di Lowen alle organizzazioni (d’impresa e non) e di come le sue riflessioni potessero aiutarmi a chiarire alcuni problemi che continuo a riscontrare in quest’ambito.

Ritengo la contaminazione essenziale per arricchire la nostra professionalità e elevare la nostra capacità di apportare valore al nostro lavoro in virtù di un continuo confronto di esperienze, conoscenze ed intelligenze.

Il mio obiettivo è simile a quello dell’imbuto “bucato” metafora dell’open innovation: raccogliere stimoli e spunti dall’esterno dell’Organizzazione, intesa come disciplina, raffinarli con le idee e le riflessioni interne ad essa e infine produrre azioni di miglioramento sul sistema organizzativo tutto.

In un processo misto di ricerca attiva di stimoli e confronti e di ricezione passiva, ma critica, di idee eteroprodotte ogni giorno il mio pensiero si arricchisce di ulteriori combinazioni trivalente di osservazione-assimilazione-azione.

Ho letto molto di Alexander Lowen e lo ritengo parte fondamentale della mia formazione: il suo libro “Il linguaggio del Corpo” mi ha introdotto al  concetto di fusione tra corpo e mente e insegnato la necessità di agire con coerenza su entrambi. Il suo testo sul “Narcisismo” mi ha aiutato a comprendere alcune personalità “peculiari” nelle quali mi sono imbattuto in questi anni. Ad entrambi devo la mia idea di leadership, molto diversa dall’attuale corrente, e la comprensione delle reali capacità che dovrebbero appartenere a chi guida un’ organizzazione.

Tornerò su questo tema in qualche prossimo articolo perchè il mio intento oggi, quasi a caldo, è soffermarmi su quanto esposto in  “Bioenergetics”.

Una doverosa premessa prima di proseguire la riflessione: quanto scrivo (e penso) non ha l’ambizione di aprire un nuovo filone di pensiero scientifico ma più semplicemente si focalizza su l’utilizzo dell’esperienza di altissimo livello scientifico e accademico di un autore come Lowen per migliorare la gestione delle organizzazioni.

Un passo indietro.

Anni fa il professor Federico Butera nel libro “Il castello e la rete” iniziava a confrontare due idee di modello organizzativo: organizzazione come sistema meccanico, l’orologio, o come un modello organico fisiologico.

A pag 97 (edizione Franco Angeli), Butera affermava che mentre la visione meccanica si basava su quattro dimensioni quali, Burocrazia Gerarchica, Divisione del lavoro spinta, Uomini quali parti di ricambio dell’organizzazione e Cultura della dipendenza e dell’esecuzione, quella organica, a pag. 99 (edizione Franco Angeli) adottava dimensioni quali Ruoli e sistemi autoregolati, Ruoli professionali basati sulla minima specificazione, Risorse Umane come componenti e Cultura dell’interazione e della soluzione.

Istintivamente dopo 20 anni da quella che al tempo era una rivoluzione culturale chi potrebbe dar torto a Butera?

Nessuno!!! Forse però non tanto per convinzione quanto per omologazione culturale da un lato e per comodità dal’altro.

Prendere infatti un modello già elaborato e preconfezionato che nel corso degli ultimi anni non solo è sopravvissuto ma si è ideologicamente (purtroppo solo ideologicamente) rinforzato è sicuramente meno faticoso che porsi criticamente davanti alla realtà ed elaborarne uno proprio.

Per inciso io sono convinto che questo sia un problema dal momento che, secondo me, ogni persona incaricata di disegnare e gestire un’organizzazione dovrebbe avere un proprio punto di vista, evoluto, originale e in grado di potersi sviluppare e  migliorare nel tempo.

Il problema di questa scarsa convinzione diffusa, in contraddizione con la quasi universale approvazione formale del modello organico si è creato quando dalla teoria si è passati ai fatti: abbiamo, infatti, assistito e tuttora assistiamo a soluzioni organizzative e ad interventi di miglioramento, più o meno originali, che son figli di un’applicazione “meccanica” e “retorica” (il che costituirebbe da sola una contraddizione in termini) del modello organico.

C’è però un elemento che nei fatti contraddice l’assoluto consenso e verità del  modello organico di Butera ed è costituito dalla realtà degli eventi. Osservando la maggior parte delle organizzazioni il vero modello prevalente non è l’organico, a dispetto della plebiscitaria accettazione, ma, che ci piaccia o no, è ancora quello meccanico.

Il “quasi” è dovuto al fatto che in realtà la mia osservazione mi porta a dire che se una organizzazione nasce oggi con imprenditori forti di ultima generazione assume in modo naturale il modello organico evoluto, che proverò a descrivere in seguito mutuandolo dalla Bioenergetica, a differenza delle imprese con qualche anno sulle spalle dove per l’appunto predominano le quattro dimensioni del modello meccanico. E’ inutile dire che le prime hanno tutte successo a differenza delle seconde dove il successo (sempre più raro) si alterna con l’insuccesso.

Una ambiguità questa che crea non pochi problemi alle organizzazioni.

Ma perchè ciò avviene? Perchè nonostante ore di consulenza, progetti organizzativi, somme di denaro spesi in nome del modello organico le organizzazioni soffrono ancora di una visione/gestione meccanica?

In primo luogo perchè la maggior parte dei manager che nascono nel secolo scorso sono “meccanici” e solo pochi, pochissimi, sono organici e, questi pochi, si trovano ogni giorno a combattere in un contesto “meccanico” uscendone con le ossa rotte.

A questo si aggiunge che la crisi di oggi invece di spingere verso l’innovazione (anche se parlare di innovazione per un modello creato 20 anni suona quasi provocatorio) induce la debole classe manageriale a contrarsi e a tornare verso ciò che paradossalmente sembra pù comodo: il modello meccanico.

La visione meccanica è, infatti, molto più rassicurante di quella organica: tra la macchina ed il cavallo se il criterio fosse la possibilità di arrivare veloci e comodi, ognuno di noi sceglierebbe la prima. Guidare una macchina è quasi automatico, condurre un cavallo no perchè dipende anche da lui: la macchina non ha discrezionalità, l’essere vivente sì.

Pensiamo però ai danni che potremmo creare trattando un essere vivente come un cavallo come se fosse una macchina: lo porteremmo alla morte in brevissimo tempo.

Ed è questo che sta succedendo alle organizzazioni (alla maggior parte di loro) la morte per cattiva gestione: ci ostiniamo a pensare che siano assemblaggi di pezzi inanimati e pretendiamo di trattarle come tali, mentendo per pigrizia a noi stessi, mentre sono esseri viventi e pensanti.

Questo però, a parer mio è solo l’effetto e non la causa che risiede originariamente in una malintesa interpretazione del modello organico interpretato come antitetico al meccanico e non invece, come di fatto è, in una sua evoluzione che lo ingloba ed integra oltre che lo supera.

E qui Alexander Lowen con la sua bioenergetica ci viene in soccorso.

In Bioenergetics l’autore afferma infatti che per la Bioenergetica il corpo non è una semplice macchina ma ha anche delle funzionalità peculiari della macchina.

Il cuore ad esempio non può essere trattato come una semplice pompa, anche se la sua funzione è assimibilabile ad essa, perchè totalmente integrato nel sistema vitale energetico e passionale dell’essere vivente (corpo e mente).

Se una valvola pulsa e niente più, il cuore no, trasmette vita fornisce sensazioni ed emozioni.

Però, e questo è il passaggio a mio avviso importantissimo e cruciale, il cuore è anche una pompa che ha funzioni meccaniche e anche come tale va visto. Non solo ma anche.

Se, infatti, è pericoloso trattare un cavallo come potremmo gestire una utilitaria altrettanto pericoloso, mortale, sarebbe disconoscere che il nostro organo vitale ha delle funzioni meccaniche.

L’interpretazione che i più, me compreso, danno delle parole di Butera consiste nella negazione del modello meccanico a favore di un modello organico e non, come detto sopra, in un modello che lo superi ma ne integri alcune verità incontrovertibili.

Come spesso mi ha ripetuto il professor Paolo Monari, nelle lunghe discussioni presso il suo ufficio laboratorio di pensiero, la verità la troveremo nel passaggio dalla verità dell’OR a quella dell’AND.

Ciò che Lowen sostiene per l’essere umano vale forse ancor di più per l’organizzazione (aggregato multiplo di esseri umani): non posso, nel modo più assoluto, analizzare ed interpretare un sistema organizzativo escludendo le sue parti meccaniche e non considerare queste ultime integrate nella vita dell’organismo “organizzazione”. Devo quindi esplicitare le innumerevoli interconnessioni tra i flussi energetici e i funzionamenti meccanici.

Un sistema organizzativo di successo deve perseguire e raggiungere l’armonia tra la sua parte soggettiva e quella oggettiva: una non funziona senza l’altra ma non solo, una è lo specchio dell’altra.

E così come Lowen osservando un corpo e come si muove comprende molto della mente (e viceversa) e dalle sue azioni fisiche evince il flusso di energia così noi osservando le regole ed i processi di un’impresa siamo in grado di comprendere la sua intelligenza collettiva – risultato dall’aggregazione di quelle individuali – (e viceversa).

Il tutto però deve essere necessariamente contestualizzato.

Non tutti i cuori (come sintesi delle funzionalità meccaniche del corpo) sono uguali e in grado di affrontare tutti gli sforzi: vanno allenati ma ognuno in modo diverso. Allo stesso modo anche la fusione e delle due componenti, organica e meccanica può essere uguale per ogni sistema organizzativo.

Esistono dei principi generali universalmente applicabili ma lo sforzo di adattamento e contestualizzazione costituisce una priorità inevitabile per ogni manager, e le scorciatoie non esistono pena il declino del sistema.

Potremmo quindi sintetizzare che molti manager dagli anni ‘90 ad oggi hanno provato ad applicare una chiave “organica” al loro agire organizzativo ma facendolo in modo errato (poco importa se per pigrizia, incompetenza o superficialità) hanno prodotto effetti per lo più di facciata e al di sotto del miglioramento atteso. Un insuccesso nei fatti ma rimasto troppo spesso a livello inconsapevole che li ha portati a consolidare la loro azione meccanica, nonostante i proclami “organici” causando, come nella metafora del cavallo trattato come una macchina, il declino del sistema.

Ruoli e sistemi autoregolati, Ruoli professionali basati sulla minima specificazione, Risorse Umane come componenti e Cultura dell’interazione e della soluzione sono concetti assolutamente condivisibili la cui applicazione porterebbe sicuramente il sistema organizzativo ad un livello di eccellenza superiore ma non sono autosufficienti ed auto realizzanti. Proclamarli, enunciarli lanciarli in una convention non basta.

Ci vuole onestà intellettuale, spirito critico e attitudine al cambiamento per renderli realtà e soprattutto competenza e lucidità analitica.

L’energia vitale che fluisce in un essere vivente attraversa la parte fisica e quella mentale al pari dell’energia fattiva che serve all’organizzazione per produrre valore e che si sprigiona dalla fusione della componente soggettiva con quella oggettiva: negare una o l’altra significa inibire il flusso di energia e penalizzare la produzione di valore.

Senza respiro la vita non fluisce ma il respiro è dato da un flusso meccanico, cuore e polmoni, e da una volontà mentale che ne caratterizza frequenza ed intensità; non solo la parte emotiva e passionale possono condizionarne l’efficienza meccanica.

Il sistema, nelle sua doppia componente, va portato in chiaro, analizzato e allenato secondo programmi specifici ad hoc. L’autoregolazione di cui parla Butera è centrale nel mio pensiero ma lo sono in modo altrettanto rilevante le funzionalità oggettive: autoregolamentazione senza un’impalcatura normativa, un sistema premiante e di compensation, solo per fare un esempio, una rete fisica di passaggio delle informazioni o un metodo di lavoro e di archiviazione della conoscenza è un fallimento. Che questa sotto o sovrastruttura sia esplicita o implicita poco importa nel caso in cui la produzione del valore è soddisfacente ed in linea con le attese. Se però si deve intervenire sul sistema per migliorarlo o replicarlo o anche solo aumentarne le dimensioni, tutti gli elementi devono essere portati in chiaro e devo avere il coraggio di prenderne atto per quali sono e avere la competenza per gestirli. Tutto ciò oggi non avviene completamente.

Proseguendo la contaminazione tra analisi dell’individuo e analisi dell’ organizzazione, un altro spunto, molto arricchente, lo troviamo quando Lowen parla delle gestione dell’energia. La Bioenergetica afferma che un essere vivente deve essere sempre in equilibrio energetico ovvero bilanciare l’accumulo di nuova energia con lo scarico di quella già posseduta.

La disfunzione della capacità di definire e trovare l’equilibrio è spesso la causa di molte anomalie caratteriali delle persone quando non si trasforma in una vera e propria patologia (fisiche e mentali).

A volte può capitare che nella ricerca di questo equilibrio un organismo che non può scaricare energia rallenti suo respiro per ridurne l’assunzione. Così facendo esso trova un suo equilibrio apparente nell’immobilità (o nella rassicurante lentezza) ma, senza rendersene conto, allo stesso tempo produce ansia dovuta alla consapevolezza inconscia di andare verso un destino fatto di inedia e rassegnazione.

Non vi ricorda niente tutto ciò? Io personalmente leggendolo ho riconosciuto il “modus vivendi” di moltissime organizzazioni, sia d’impresa che legate ad altri soggetti assimilabili (qualche sindacato, alcuni enti pubblici, qualche partito etc.). Si riducono le azioni sperando di trovare una qualche forma di equilibrio per stare in vita.

Il management non evolve, non dà indirizzi nuovi, non cambia non innova, si chiude in se stesso, si mimetizza con l’ambiente esterno che si traduce come conseguenza in tagli alla produzione, diminuzione del fatturato riduzioni dell’organico. Tutte azioni che riducono il respiro prima e che portano in atrofia gli organi che piano piano devono essere tagliati.

Personalmente ho vissuto un’azienda che pur di non trovare nuove fonti di reddito e di rivoluzionare il proprio modello di business e organizzativo preferiva ridurre progressivamente le proprie attività fino ad annullarsi di fatto.

Tempo fa lessi il paragone tra due catene di supermercati, una americana e una spagnola: la prima aveva deciso di ridurre l’organico la seconda di mantenerlo inalterato. Il rapporto persone metri quadri della prima risulta ½ di quello della seconda. In molti potrebbero elogiare la prima attribuendole un’efficienza maggiore senza però sapere che ogni persona della seconda è stata in grado di sviluppare 4 volte il fatturato di una della prima. Morale investire sulla crescita di organico ha portato alla catena spagnola un fatturato per metro quadro pari a 8 volte quello della concorrente americana.

Invece di aumentare la respirazione, attaccare le fonti di energia cercarne di nuove si cerca di diminuire quella in uscita per ridurre il fabbisogno di quella in entrata.

Per questo le organizzazioni si trovano oggi di fronte a due ordini di problemi. Il primo costituito dal fatto che le aziende non sono ambienti chiusi in cui le persone entrano spogliandosi degli effetti dell’ambiente esterno, ma sono luoghi di attraversamento in cui ognuno porta l’energia che ha accumulato in altri momenti della propria vita.

Se un’organizzazione non permette l’utilizzo di questa stessa energia, in primo luogo commette un peccato quasi mortale visto che comunque la paga e non la trasforma in valore, ma, ancora peggio, crea una pentola a pressione pronta a scoppiare da un momento all’altro nei modi più imprevedibili.

Il fatto che alcuni spengano il cervello, sindrome da autodifesa dell’individuo,  varcate le soglie dell’azienda è, forse, il minore dei mali (fatta eccezione per il peccato mortale di cui sopra).

Tralasciamo ad altra sede gli effetti sulla società esterna che se da un lato può beneficiare dell’energia pagata e non usata dall’azienda dall’altro, però, rischia di avere individui sempre più frustrati e mal disposti verso la crescita (sapendo di non poter scaricare energia non provvedono più neanche ad accumularla).

Il secondo problema è invece non di clima ma di sviluppo: se so che non posso scaricare energia all’interno dell’azienda perchè mai dovrei essere ricettivo verso nuovi accumuli.

Questo è il fenomeno che che ha distrutto gran parte della formazione e delle attività di sviluppo che viene fatta in azienda, ed è il motivo per il quale le aziende che fanno formazione sperano che questa sia neutra ed  innocua e che non vada a creare cariche di energia ulteriori, rispetto a quella naturalmente posseduta dalle persone o acquisita altrove proprio perchè non saprebbero cosa farsene. Anzi pensando alla metafora delle pentola a pressione iniziano a temerne gli effetti.

Tutto ciò non sempre è un processo consapevole, in quel caso sarebbe quasi criminale, ma anche se avviene con la totale buonafede degli attori in gioco gli effetti devastanti non cambiano.

Il risultato è che la maggior parte delle attività formative, anche di altissimo livello qualitativo, non vanno nel senso di aumentare la potenza dell’organizzazione ma si traducono in una mera attività divulgativa. Sia perchè subito dopo l’individuo non trova come mettere a terra i cavalli acquisiti, e quindi da quale momento in poi strutturerà il processo di interiorizzazione in modo neutro e neutralizzante, sia perchè i programmi son così lontani dalla realtà che non rischiano neppure lontanamente di influire sulla carica energetica.

Prendiamo il team building: se ci pensate le attività di team building sono il racconto di come sarebbe bello se tutti lavorassimo in gruppo, una mera cronaca che non incide minimamente sulla reale capacità dell’azienda di far lavorare le proprie persone in forma aggregata.

Le situazioni per quanto raffinate son spesso falsate o non replicabili e chiuse in se stesse: non fanno parte di un processo di cambiamento che tocca le funzionalità organiche e meccaniche dell’azienda e la mette davvero nella condizione di cambiare metodo di lavoro.

E perchè non soffermarci sulla “customer orientation”: Jan Carlzon, altro indiscusso maestro di management, diceva, parte meccanica, di rovesciare la piramide dando potere a chi gestiva il cliente, e successivamente, parte organica, sviluppare in essi la capacità di reggere il peso di quella piramide.

Raccontare alle persone che il cliente è importante oggi suona come una presa in giro: chi non lo sa, chi non è cliente a sua volta? Eppure ancora adesso i programmi di customer orientation sono costruiti in questo modo, dopo di che la persona, tornato nella realtà, non ha a sua disposizione nè gli strumenti nè i processi per mettere in pratica ciò che ha sentito in aula e allora spegne il cervello pone un sorriso di circostanza e cerca la sopravvivenza organizzativa riducendo l minimo i suoi movimenti.

Una compagnia aerea e una azienda di mobili, non faccio il loro nome perchè non sono autorizzato a farlo, hanno strutturato il processo di servizio reclami mettendolo a diretto contatto con la produzione: hanno agito sulla parte meccanica liberando il flusso di informazioni. Allo stesso tempo però hanno sviluppato l’attitudine di entrambi gli enti (servizio clienti e produzione) affinchè ottimizzassero il flusso di conoscenza ed intelligenza tra loro: hanno agito sulla parte organica.

Così come ad un individuo obeso non posso imporre una dieta senza comprendere il perchè della sua disfunzione alimentare (e allo stesso modo una volta costruito il quadro diagnostico non posso non intervenire sul regime alimentare) in una organizzazione non posso imporre un programma di azioni (qualunque esse siano) senza agire sul profondo delle sue componenti: persone, processi e regole.

La dieta imposta è un alibi dei familiari o del medico per poter dire “il mio dovere l’ho fatto” e per procedere successivamente ad azioni più traumatiche (riorganizzazioni, right o down sizing solo per citarne alcune).

Certo come l’obeso deve avere il coraggio, o la lucidità di andare in analisi e portare alla luce il più profondo del suo io prima ed affrontare le tappe della terapia dopo anche chi governa l’organizzazione deve aver il coraggio di affrontare un’analisi seria ma, soprattutto, attenersi alla cura.

Ad oggi molte organizzazioni compiono il primo passo ma poi si fermano davanti alla terapia scegliendo soluzioni precostituite e di moda per pigrizia o per mancato coraggio: fare ciò che hanno fatto altri non espone al rischio del pioniere.

Tra i tanti esempi in controtendenza rispetto a questa filosofia di vivere mi piace citare il Brunelleschi: se avesse ragionato in questo modo non avremmo la cupola di Santa Maria del Fiore. Cito proprio il Brunelleschi perchè ebbe il doppio coraggio di cambiare e di non cambiare allo stesso modo, prendere ciò che avevano fatto i classici prima di lui e innovarlo con sue intuizioni.

E il Brunelleschi assieme a Lowen mi servono per concludere: non esiste una terapia precostituita, un progetto prestabilito. Ogni paziente ogni cupola necessitano attenzione dedizione concentrazione coraggio competenza conoscenza e determinazione.

E le organizzazioni?

L’oblio organizzativo: come evitarlo attraverso lo storytelling

8 Apr

Quando ho deciso di scrivere questo articolo avevo in mente la condizione in cui si trovano molte persone, in taluni casi la maggior parte, che vivono l’azienda in modo passivo senza ricercare la benchè minima forma di centralità rispetto ai suoi processi chiave e sono accompagnati da quel senso di  rassegnata abitudine che, inevitabilmete, frena il loro potenziale.

Oggi però, dopo averne redatto la prima bozza, mi accorgo che l’oblio (perdonate il gioco di parole) è anche di chi, nei ruoli gestionali, non si accorge dell’oblio stesso: siamo talmenti abituati a vedere l’oblio nelle organizzazioni, che non ce ne accorgiamo neanche più. Quasi come se nella nostra percezione l’oblio fosse passato da fattore patologico, cosa che in effetti è, a elemento fisiologico: un male necessario, incurabile anche se non mortale (apparentemente).

Così non è: l’oblio organizzativo è, senza dubbio, il fenomeno che più di ogni altri ostacola il successo di un’impresa.

Ma, nei fatti, cos’è l’oblio organizzativo?

Per prima cosa voglio elencare i due concetti base di quella che negli anni è divenuta la mia teoria riguardo alla gestione delle persone in azienda:

1. l’impresa di successo deve poter usufruire del più alto livello di intensità  intellettuale ed emozionale nonchè comportamentale posseduto dalle persone con cui collabora, tutte nessuna esclusa;

2. ogni persona vive, anche in azienda, per costruire attorno a sè un sistema di relazioni all’interno del quale deve poter esprimere il suo massimo livello di intensità (intellettuale, emotiva e comportamentale) in modo da vedere riconosciute e premiate la sua presenza e la sua azione.

A questi due concetti aggiungo, per completezza, una terza considerazione: lo sviluppo dei comportamenti e del modello cognitivo che li origina è efficace solo se sorretto da un’azione continua nel tempo, lungo tutta la durata del rapporto di collaborazione, con un livello di complessità e sofisticazione crescente e non si limita ad azioni una tantum concentrate in particolari fasi (ad esempio assunzione, promozione, passaggio di ruolo …).

La mia esperienza  di osservatore privilegiato dei comportamenti organizzativi mi ha, infatti, confermato che ogni persona ricerca il protagonismo organizzativo, anche se con approcci e modalità diverse. Ognuno, consapevolmente o inconsapevolmente, desidera (e necessita) di essere riconosciuto dall’azienda anche se spesso (troppo) non ci riesce.

Quando questo non avviene, “non ci riesce”,  la causa può dipendere da due diversi fattori (tra loro concatenati come il proverbiale “cane che si mangia la coda”): da un lato l’azienda perde la visione di insieme e  si concentra solo su alcune categorie di persone (ad esempio gli alti potenziali), dall’altro i “non considerati” non procedono a sviluppare il loro modello cognitivo comportamentale, riducendo il loro concorso alla formazione del valore.

E’ irrilevante scoprire se l’azienda non considera la persona perchè questa non ha interesse a sviluppare la sua potenzialità cognitiva o se sia quest’ultima a non progredire perchè non supportata: in entrambi i casi l’effetto indotto porta all’inevitabile aumento della distonia tra impresa e individuo e al divario tra “l’agire reale”, dell’individuo, e “l’agire atteso”, dell’impresa.

Il senso dell’abbandono (verso l’organizzazione) della persona coincide simmetricamente con il senso di delusione dell’impresa.

Da qui originano due tipi di fenomeni: uno negativo l’altro devastante.

Il negativo è rappresentato dal fatto che una parte (la più rilevante) della popolazione “non considerata” inizia a sottostimarsi e convincersi di non meritare alcun “premio”, di non essere fatta per essere protagonista in azienda, nascondendo la propria necessità di riconoscimento, giustificandolo (in primo luogo verso se stessi) con il “non son fatto per far carriera”.

Risultato: consapevolmente o inconsapevolmente queste persone riducono al minimo la loro intensità di partecipazione al progetto impresa, abbassando il loro contributo emotivo ed intellettuale a favore della stessa.

L’azienda (intesa come insieme dei responsabili della gestione delle persone)  dal canto suo giustifica tutto ciò (in primo luogo a se stessa) dicendo che la carriera è per pochi e non tutti ne sono adatti. Questo è un’altro errore da  matita blu (che, come da reminiscenze scolastiche è più grave della rossa), nella maggior parte dei casi irreversibile; il premio ed il riconoscimento non significano un avanzamento di ruolo o di livello economico. Il Total Reward degli anni ’90 ci ha insegnato che ogni persona ambisce ad un proprio sistema  premiante che include, quasi sempre, il semplice fatto di essere visto come parte efficace (nè rilevante nè imprescindibile, ma solmamente utile) del processo di produzione del valore. Spesso è più facile offrire un premio in denaro, che saper individuare le giuste e coerenti dimensioni del riconoscimento atteso.

Il “devastante” avviene invece quando una parte dei “non considerati” non si rassegna e si pone in un’ottica non neutra, ma di contrapposizione verso l’impresa stessa, ricercando per altre vie quella centralità che i processi organizzativi “ufficiali” non offre.

Mi si potrà obiettare che seguendo il principio della teoria darwiniana (selezione naturale) l’azienda debba o possa premiare solo chi sa sviluppare in autonomia il proprio sistema cognitivo e comportamentale.

Vero. Però a due condizioni:

– tale proposito o prerequisito deve essere chiaro e ben compreso da ognuno senza alcuna possibilità di fraintendimenti:

– in questo modello – che se trasparente assume anche i canoni della correttezza – l’azienda deve avere la forza di abbandonare chi non è in grado, o non ne possiede la volontà, di far progredire continuamente le sua capacità cognitivo-comportamentali.

Ogni organizzazione può decidere dunque di perseguire la massimizzazione del livello di partecipazione emotiva, intellettuale e comportamentale o con la  selezione o con la formazione o con una combinazione variabile delle due azioni: basta, però, che lo faccia e non cada essa stessa in quell’oblio indiretto di cui ho parlato all’inizio.

L’oblio organizzativo è pertanto definibile con lo stato d’animo che attanaglia le persone quando iniziano a sentirsi dimenticate dall’impresa, sia nel caso in cui si percepiscano inutili, sia in quello in cui si sentano “invisibili”. Al suo interno si sviluppano, quindi, i due diversi tipi di alienazione, sopra descritta, che definirei “alienazione organizzativa”: alienazione organizzativa latente, appartenente allle persone che spengono, o riducono al minimo, il flusso della loro intensità verso l’impresa, e alienazione organizzativa rancorosa, sviluppata dalle persone che reagiscono all’oblio con la voglia di vendetta e l’ansia di colpire e penalizzare l’impresa stessa.

Oltre a quanto fin qui affermato va detto che oggi un altro fattore contribuisce ad aumentare il livello di oblio organizzativo: la percezione di un diverso sistema premiante di fatto. 

Accade infatti che in periodi di crisi pesante come quella che sta coinvolgendo oggi il nostro sistema economico/industriale, le organizzazioni trovino più semplice eliminare chi commette errori (veri o presunti), piuttosto che analizzare le cause sistematiche che hanno portato a quegli errori.

Dico “presunti”, perché tra le cause del sistema annovero anche l’attività di misurazione e valutazione dell’errore: si colpisce ciò che sembra sbagliato prima ancora di chiedersi  se veramente, e quanto, sia sbagliato.

In ogni caso colpendo l’azione sbagliata, o percepita tale, invece del sistema che l’ha originata, si veicola il messaggio che l’agire in sè è più penalizzante del non agire. Il risultato, paradossale, è che la situazione di oblio organizzativo da negativa diventa un traguardo da raggiungere, quasi uno porto tranquillo dove rifugiarsi.

Di oblio organizzativo però si muore; ciò accade quando il rapporto tra costo del capitale umano e valore del capitale umano utilizzato oltrepassa la soglia di sicurezza e assume valori negativi e penalizzanti.

Non ho difficoltà ad affermare che il tasso di oblio organizzativo di una azienda coincide con  il suo indice di inefficienza.

Ho già scritto in un precedente articolo come, secondo me, questo rapporto si può misurare e rimando a quella sede – ed ad altri articoli in lavorazione – un ulteriore approfondimento del modello chiamato “hello pitagora” che è stato pensato e strutturato per questa misurazione.

Qui desidero continuare a ragionare su uno strumento efficace nella lotta a questa patologia organizzativa.

Innanzi tutto contro l’oblio non si deve agire in modo sporadico e parziale, indirizzandosi solo su una porzione di popolazione. L’azione, sia essa proattiva o reattiva, deve essere forte, decisa, inclusiva e sostenuta nel tempo.

In ciò risiede il senso della mission di una Direzione del Personale “utile” e funzionale al valore aziendale. Essa deve agire in due sensi: direttamente – verso tutti – e indirettamente, in supporto alle altre funzioni di coordinamento dell’azienda, affinché le stesse intensifichino la loro azione diretta verso tutti.

La tecnologia – e in particolare quella riferibile al mondo dei “social” – abilita numerose possibilità di intervento, declinabili a seconda dei contesti organizzativi. Tra queste, una su tutte ha catturato la mia attenzione (anche progettuale con una piattaforma specifica di cui parlerò in seguito): la possibilità di “estendere esaustivamente” lo Storytelling.

Lo storytelling è infatti sempre esistito nella storia dell’uomo ed in particolrae nella recente evoluzione delle comunicazione: pensiamo infatti a Carosello. Le tecnologie social, però, permettono il coinvolgimento in questa attività di narrazione di tutta la popolazione aziendale, sia come autori che come pubblico. Con una idonea piattaforma infatti ogni persona può essere abilitata a creare una sua storia da condividere, quasi in tempo reale, con il resto dell’organizzazione.

Perchè lo Storytelling?

In primo luogo perché il fatto stesso di potersi esprimere porta con sé la speranza, concreta e tangibile,  di essere ascoltati e considerati. Speranza che diventa consapevolezza laddove lo story telling venga inserito in un sistema aziendale che lo gestisce, riconosce e premia.

Attraverso questo strumento ogni persona ha la possibilità di raggiungere quella centralità (la cui gradualità resta comunque soggettiva ) alla quale consciamente o inconsciamente aspira.

In secondo luogo perchè (quasi come una azione di verso opposto della precedente) con lo storytelling è l’azienda che acquisisce uno strumento efficace per conoscere le proprie persone.

In un mio precedente articolo sul “pensiero circolare”, mi ero infatti soffermato su quanto il linguaggio fosse una gabbia per il pensiero e l’utilizzo tout court delle parole, scritte o parlate, diventasse un limite per la propria capacità espressiva. Lo storytelling, se adeguatamente strutturato, può superare questo limite e mettere ognuno nella condizione di trasmettere emozioni e conoscenza creando un legame stretto tra chi racconta e chi ascolta.

Lo storytelling quindi, può funzionare per entrambi gli obiettivi: diffondere a molti, e trasformare in patrimonio intellettuale organizzativo la conoscenza di un singolo individuo o di un singolo gruppo – concretizzando, finalmente, i paradigmi del knowledge management degli anni ’90 – e, allo stesso tempo, creare un legame, bidirezionale, cognitivo e comunicativo tra persone e organizzazione.

La narrazione infatti, va a toccare più parti del nostro cervello e crea le basi per un ricordo che duri nel tempo e contemporaneamente aumenta, in modo esponenziale e geometrico, la possibilità di essere realmente compresi.

Come scrive Andrea Fontana (http://www.andreafontana.blogspot.it/) nel suo Manuale dello Story Telling (citato da Francesco Cardinali – http://www.quellicheconlavoce.eu/cardinali.htm – nel numero di aprile della rivista Mente & cervello – l’alternativa che fa storia) “in una società complessa conoscitiva a poteri multipli la narrazione è un sofisticato mezzo retorico di presidio  e scambio del potere, un modo per gestire la percezione di pubblici che all’interno di società consocitive sono sempre più sofisticati ma anche più assuefatti”.

Personalmente, sono sempre più convinto che la comunicazione nel contesto di una azienda debba essere funzionale a creare comprensione e ricordo nel lungo tempo, e non indirizzata a generare uno shock momentaneo. Per questo trovo sempre meno efficaci le convention aziendali (a meno che non siano organiche ad un progetto di comunicazione più articolato e duraturo) e tutte le altre forme e modalità di comunicazione a senso unico e prestabilito. In entrambi i casi, la reazione prodotta è – per quanto a volte intensa – di fatto estemporanea ed effimera.

La comunicazione efficace deve toccare la sfera razionale ed emotiva contemporaneamente e deve  lasciare aperto il percorso: dare l’idea di un continuum nel tempo.

Un rapporto duraturo si basa su uno lo scambio continuo di energia tra impresa e individuo, condizione imprescindibile per la realizzazione del progetto impresa.

La tecnologia è un fattore abilitante che consente oggi di supportare qualunque tipo di processo. Immaginiamo ad esempio di sfruttare le potenzialità di una piattaforma social che inneschi processi di connessione all’interno dell’organizzazione aziendale, alla stessa stregua di un vero sistema neuronale conoscitivo (affascinante concetto di difficile realizzazione, tant’è che i casi di successo sono rari).

Connessioni libere di assumere una loro forma, che evolvono in modo naturale, ma aiutate dall’azione aziendale che funge da motore di indirizzo, orientamento e supporto.

Pensiamo ad una adattamento social della teoria della “comunità di pratica”, una delle intuizioni più geniali degli ultimi tempi in merito a sviluppo organizzativo (forse l’unica).

Connessioni che devono servire alle persone per poter esprimere il proprio pensiero, la propria emozione, ovvero l’essenza della propria presenza in azienda. Ma, al tempo stesso, connessioni che servono all’azienda per comprendere in modo esaustivo la natura delle persone che vi vivono nell’organizzazione e, allo stesso tempo, per veicolare i contenuti e gli strumenti a a supporto dello sviluppo cognitivo.

In questo regime di scambio di utilità sicuramente le persone possono trovare le motivazioni per esprimere il meglio della loro intensità emotiva, non fosse altro perché in un contesto come questo hanno la possibilità conoscere, entrare a far parte del progetto impresa e comprendere come poter contribuire alla sua realizzazione.

La narrazione potrà e dovrà essere veicolata in modalità multicanale in modo da offrire ad ognuno la scelta del device di fruizione: ognuno ha infatti una preferenza ed un’attitudine soggettiva per la forma di espressione da utilizzare.

La piattaforma tecnologica, l’ambiente social dedicato, deve inoltre essere in grado di utilizzare e favorire qualsiasi tipo di linguaggio comunicativo: testo, immagini, video, voce, SMS,… .

Per finire voglio citare un esempio di storytelling efficace, sempre citato dal Franco Cardinali nel numero di aprile della rivista Mente & cervello,  ovvero lo spot “always a better way” di Toyota, creato per l’appunto dalla casa giapponese per comunicare e stringere un rapporto con il mondo che si identifica con il suo target.

In sintesi, a mio avviso, la comunicazione d’impresa deve dunque operare sugli  stessi parametri e con uguali canoni, sia che si indirizzi verso l’esterno, sia  che si rivolga al suo interno.

Hello Pitagora il nuovo modello di lettura delle Organizzazioni, il processo “core”della Direzione del Personale che sa innovarsi

25 Mar

Sappiamo davvero leggere i meccanismi che governano una organizzazione al pari delle sue dinamiche di funzionamento?
Accademici, Professionisti, Manager, tutti coloro che si occupano, a vario titolo, della gestione delle persone in azienda, possiedono le tavole di decodifica di quel complesso sistema che le persone e le loro azioni creano in un’impresa?

A mio parere no, soprattutto perchè troppo spesso ci affidiamo ancora a schemi di lettura vecchi, senza metterli in discussione.
Così facendo, però, appesantiamo, quandoanche non rendiamo vana, la nostra azione con il rischio di rimanere avulsi e lontani dai luoghi dove si produce il valore (per l’impresa), riducendo l’utilità sia percepita che realizzata del nostro ruolo.
Decodificare i sistemi organizzativi può essere quasi frustrante: quando pensiamo di essere arrivati alla soluzione c’è sempre un “qualcosa” che cambia e rimette in discussione il risultato. Come nel gioco delle tre carte: si segue il flusso delle carte, mentalmente lo si mappa (come si mappano i processi e le funzioni) si pensa di sapere dov’è la carta vincente e invece una mossa non percepita l’ha spostata dalla posizione presunta. Le carte come le organizzazioni, cambiano assetto velocemente al mutare (nel caso di queste ultime) della condizioni del mercato o del sistema sociale di riferimento.
Ogni tanto capita di raggiungere il risultato, a volte per bravura ma a volte per fortuna, competenza questa che può rientrare tra le competenze manageriali del ruolo.
Ridurre la casualità e aumentare le probabilità di successo, ci obbliga a trovare un nuovo, in questo caso anche “nostro”, modo di leggere un sistema così variabile come quello sottostante l’organizzazione in azienda.

É necessario riportare chi si occupa di “gestire le persone” ad un ruolo centrale nel processo di produzione del valore, dotandolo di strumenti e modelli di lettura e governo dell’Organizzazione.
Per questo nasce “Hello Pitagora” (www.hellopitagora.com), che abbiamo chiamato così in onore di colui che riuscì ad unire il soggettivo all’oggettivo, utilizzando la matematica, ancor oggi unico strumento universale di comunicazione e di lettura della realtà che ci circonda.

Prima però di parlare dell’articolazione concettuale alla base del nostro modello, desidero ripercorrere le “tappe intellettuali” che hanno definito, nel tempo, il mio pensiero sull’Organizzazione e che è stato il mio contributo alla progettazione del sistema.

Innanzi tutto, come nei precedenti articoli, premetto che il mio non è un approccio accademico e, pertanto, ciò che segue è la traduzione concettuale della mia personale esperienza pratica arricchita da qualche incursione, anche questa mia personale, nel mondo, questo sì. Ho provato a rileggere questo mio percorso come un viaggio a tappe successive, ognuna delle quali ha generato una riflessione specifica.

Ogni autore citato, sia per il suo pensiero in generale o per un suo testo specifico, mi ha, infatti, “regalato” una occasione per pormi alcune domande, focalizzare il mio pensiero su alcuni aspetti critici del sistema organizzativo (originato dalle persone e dalle loro azioni) e rileggere la mia vita manageriale rendendola più chiara e comunicabile. Pertanto non si tratta di uno studio scientifico ma di una serie collegata di spunti, spero interessanti, che spiegano il perchè (ed il come) è nato “Hello Pitagora”.
Non sempre son riflessioni concordi con il pensiero dell’autore, a volte partono all’opposto, dall’avervi trovato dei limiti, come ad esempio nel primo.

Michael Porter

Michael Porter (http://it.wikipedia.org/wiki/Michael_Porter) e la sua idea della catena del valore (http://it.wikipedia.org/wiki/Catena_del_valore), mi ha portato ad analizzare il processo di produzione del valore come una sequenza di fasi tra loro interconnesse durante le quali l’impresa aumenta o disperde il suo potenziale (di costruzione di valore). Secondo Porter l’organizzazione non è un blocco unico e rigido ma è composto da elementi autonomi (o quasi) con caratteristiche proprie.
La sua visione, però, fin qui ancora valida ed attuale, contiene anche dei tranelli ideologici:
– considerare le varie fasi stabili e chiuse entro i propri confini;
– sottovalutare l’interazione tra i diversi ambienti e processe;
– trascurare la parte soggettiva delle persone quali pensieri, emozioni, stati d’animo.
Una visione che sia nella parte che concordo che nell’altra mi ha portato alla:

Riflessione # 1
L’organizzazione è sì fatta da sottosistemi, come afferma Porter, ma non sono quelli legati alle fasi produttive esplicite e non interagiscono tra loro solo in modo lineare, causale e prevedibile. É necessario trovare una diversa catena del valore.

Michael Hammer & James Champy
(http://en.wikipedia.org/wiki/Michael_Martin_Hammer) &
(http://en.wikipedia.org/wiki/James_A._Champy)

Il loro testo, Reengineering the Corporation, rivoluzionò il modo di “analizzare” i processi organizzativi, affiancando all’idea del miglioramento incrementale, “cerco di far sempre meglio”, quella di un vero e proprio momento di rottura (breakthrough), “forse quello che faccio non serve e lo posso eliminare”. Distruggere e ricostruire l’organizzazione ottenendo il risultato atteso con un processo diverso progettato ex novo.
Grazie ai due professori americani abbiamo iniziato a pensare che lasciare la strada vecchia per la nuova non era rischioso (come recita il proverbio) ma, probabilmente, altamente redditizio.
Anche in questo caso però non assumo in toto la lezione di Hammer & Champy ma la arricchisco con ciò che, a mio (modesto) parere loro sottovalutavano o non evidenziavano in maniera idonea. Sebbene la loro opera rimanga comunque una rivoluzione, ancor oggi purtroppo in molti casi ancora disattesa, e abbia iniziato a parlare di flussi diversi dal materiale, quali quelli di conoscenza e informazioni, non trattava nella loro completezza le relazioni tra le persone limitandole agli scambi di cui sopra (informazioni e conoscenza nonchè materiale). Il che mi porta alla:

Riflessione # 2
Re-ingegnerizzare gli schemi interpretativi delle organizzazioni integrando l’analisi dei processi con la lettura delle dinamiche relazionali: osservare e portare in chiaro il flusso delle relazioni del sistema sociale sottostante, come si sviluppa e si crea. Dal Business Process Re-engineering al Business Social Re-engineering inclusivo di altre domande chiave quali ad esempio: chi trasmette che cosa a chi, chi condiziona chi, chi aggrega e chi disgrega.

Jeffrey Pfeffer (http://jeffreypfeffer.com)

Dal suo “The human equation” (http://jeffreypfeffer.com/books/the-human-equation/overview/) una frase che, soprattutto oggi, deve essere sempre nella mente di chiunque si occupi di persone in azienda e di ogni manager in generale: non confondere il costo del lavoro con il costo degli stipendi. Questo semplice e quasi ovvio concetto, troppo spesso disatteso e messo in secondo piano da una visione per “quarter” sottolinea l’urgenza di allargare la valutazione delle persone a tutta la loro sfera di azione ed agli effetti che può creare la loro presenza in azienda.

Thomas O Davenport
Human Capital
(http://books.google.it/books/about/Human_capital.html?id=BUHtAAAAMAAJ&redir_esc=y)
Forse il momento chiave della mio personale percorso con l’osservazione che le persone non possono essere definite risorse umane al pari delle altre, di natura materiale, economica etc, perchè limita, per non dire fuorvia, la visione stessa del fattore umano. Le persone non sono risorse ma proprietarie di un set risorse che decidono di mettere o meno a disposizione dell’impresa in base a loro proprie e soggettive considerazioni. Un gioco di parole che rivoluziona il pensiero.
Inoltre, aggiungo io, possiedono sono solo conoscenza e competenze ma la capacità di creare o distruggere relazioni con gli altri attori dell’organizzazione e di indirizzarle verso la produzione di valore o disvalore per l’impresa. Ogni persona vale infatti per quanto sa costruire aggregazioni. L’impresa di successo deve acquisire l’insieme di queste capacità e utilizzarlo al meglio. Davenport e Pfeffer assieme mi conducono alla:

Riflessione # 3
Il costo sostenuto per le persone va considerato in base agli effetti che produce; il vero capitale umano che interessa una azienda è quello che realmente utilizza, ovvero quello connesso alle risorse che le persone mettono a disposizione dell’azienda al valore che producono.
Le persone devono essere osservate e valutate per quanto e come agiscono all’interno del sistema, per l’energia che decidono di metterci e i motivi per cui lo fanno, per quali le competenze possedute e, soprattutto, per quelle che danno origine ad azioni virtuose.
Comprendere chi è funzionale alla creazione del valore e chi invece è neutro o addirittura penalizzante.

Amartya Sen (http://en.wikipedia.org/wiki/Amartya_Sen )
L’ “Etica delle capacità” e in particolare il suo libro “Un’idea di giustizia”

Il filosofo indiano, professore nelle più prestigiose Università, premio nobel per l’economia non tratta strettamente di organizzazione di impresa, ma il suo pensiero è talmente ricco di intelligenza che i suoi insegnamenti mi guidano anche in questa disciplina. La sua lettura mi ha dato e fatto pensare molto e mi ha portato (non solo) alla:

Riflessione # 4
Non esiste un modello perfetto (trascendentale) ideale per l’organizzazione d’impresa che possa derivare da una progettazione astratta dalla realtà e poi venir declinato in applicazioni concrete, in primo luogo, ma non solo perchè andrebbe verificato chi, e su quali basi, potrebbe definire le regole per questa perfezione.
Esiste sempre, al contrario, un miglior modello relativo, applicabile in considerazione di molteplici fattori quali ad esempio mercato di riferimento, comunità sociale di appartenenza, valore delle persone, siano esse già presenti o possibilmente coinvolgibili. Gli ultimi 20 anni infatti ci hanno proposto diversi modelli di organizzazione: piatta, a matrice, a rete, tre x tre (questo è in effetti un po’ più datato), tutto out(sourcing) o tutto in(sourcing) etc. Una varietà di schemi che quasi sempre vengono presentati come panacea di tutti i mali, per affrontare problemi che nella maggior parte delle volte erano causati altrove, e che non fanno altro che aumentare il livello di entropia nel sistema peggiorandone l’efficienza. Modelli che in molte aziende si susseguono in un vorticoso ciclo involutivo alla disperata ricerca dell’organigramma “filosofale”, quello che come la omonima è in grado di trovare la giusta via verso il valore ma che non fanno altro che confermare che la miglior soluzione applicata al problema sbagliato crea più danni della non soluzione. Quante imprese continuano a riorganizzarsi lasciando inalterati i problemi?
Il cambiare ottica passando dal disegno/modello organizzativo da scegliere a quali devono essere i criteri per costruirlo mi porta alla:

Riflessione # 5
Ogni persona possiede delle capacità (concetto esteso di competenza) che devono essere trasformate in funzionamenti di valore per l’impresa. Quindi i miglior sistema organizzativo è quello che consente di:
– selezionare a monte le capacità necessarie e coerenti con il valore atteso
– favorire a valle la loro trasformazione in “funzionamenti” facilitando l’interazione tra le persone e non non ostacolandola.
Un sistema che sa creare un insieme di relazioni “virtuose” e porti in chiaro, “saperi”, energie positive e “idee” assemblandole in un insieme virtuoso che amplifichi gli effetti di ciascun fattore.

Jane Mc Gonigal
“La realtà in gioco”, (http://en.wikipedia.org/wiki/Jane_McGonigal)

Un libro interessante che mi ha aperto una visuale sul mondo dei giochi virtuali (non intendo giochi d’azzardo ovviamente) fino a quel momento a me non conosciuto. Un settore economico innovativo e ricco sia dal punto di vista economico, l’industry cresce infatti a doppia cifra da anni, sia di spunti intellettuali.
La domanda su come mai tanta gente si immerge nella virtualità di un gioco e ne trova un così profondo giovamento mi porta alla:

Riflessione # 6
Ogni persona ha bisogno di comprendere quali obiettivi deve porsi, scegliere se e come seguirli e avere un riscontro preciso e puntuale sul suo progressivo livello di raggiungimento. Questo basilare principio è forse il più disatteso nella nostre aziende e aggirato con bizantinismi gestionali e organizzativi che, in contrasto con la riflessione #5, irrigidiscono il sistema riducendone l’efficienza.

Il mondo del gioco virtuale infatti attira tante persone perchè in quel luogo astratto si dichiarano fin da subito oggetti concreti quali target da raggiungere e il sistema premiante. In quel luogo si ha la piena visibilità su chi è alleato e chi no. Il sistema consegna subito il premio e incentiva il giocatore a continuare lo sforzo. Altro principio tante volte enunciato quante volte inapplicato.

Mara Selvini Palazzoli
Paradosso e Controparadosso di (http://it.wikipedia.org/wiki/Mara_Selvini_Palazzoli), assieme a L. Boscolo, C. Cecchin e G. Prata. Un libro sulla terapia sistemica in famiglie con persone schizofreniche.
Premetto che non penso che le organizzazioni contengano all’interno degli elementi di schizofrenia e quindi lo studio del testo aveva l’obiettivo di comprendere l’opinione degli autori rispetto alle dinamiche di un sistema sociale, la famiglia, paragonabile, a mio parere, a quello organizzativo. Dalla sua lettura (con occhi da organizzativo e non da terapeuta) ho derivato le seguenti riflessioni.

Riflessione # 7
Ogni persona crea nella vita delle relazioni e vuole trovare in esse un senso ed un premio per il suo comportamento. Il che ci porta ad affermare che un sistema gestionale efficace deve favorire e valorizzare la costruzione di relazioni tra le persone, in modo trasversale all’organigramma. Se non lo fa l’impresa le persone andranno a cercare altrove relazioni e sistema premiante con la conseguenza che, nella migliore delle ipotesi non metteranno la loro energia a servizio dell’impresa (riflessione #3), mentre nella peggiore, investiti da una sorta di sindrome da mancanza d’affetto (in realtà di considerazione), trasformatasi in “rancore” scaricheranno la loro rabbia sull’azienda stessa (contropotere senso di vendetta etc).

Riflessione # 8
In un sistema organizzativo la realtà delle relazioni è sistemica non lineare. Ogni azione non scatena una reazione diretta ma entra nel circolo e condiziona in modo variabile altre azioni di altre persone. Che ci piaccia o no quindi la realtà è più complessa di quanto vorremmo e i problemi che si creano non possono essere risolti con analisi superficiali e riduttive (quali quelle che portano a sostituire un modello gerarchico con uno funzionale ad esempio).
Sempre che ci piaccia o no l’analisi deve essere esaustiva e complessa, capacità, volontà, comportamenti, risultati, relazioni, sensibilità (solo per citarne alcuni), e prevedere la possibilità di ricombinare gli elementi ricostruendo le dinamiche di influenza.

Vittorio F. Guidano (http://it.wikipedia.org/wiki/Vittorio_Guidano) .

Il suo “la complessità del sè” (http://it.wikipedia.org/wiki/Vittorio_Guidano) ha fornito molte risposte sul perchè le aziende parlano molto di “engagement” senza riuscire a metterlo in pratica pienamente.
Anche qui, per rispetto dell’autore 8e agli altri già citati) evidenzio che quanto riporto è solo una minima parte di quanto contenuto nel libro e degli obiettivi per i quali è stato scritto.
In particolare la mia attenzione si è focalizzata sull’idea che il comportamento della persona derivi dalle caratteristiche intrinseche del suo modello cognitivo (conosce ed apprende) che evolve nel tempo dalla nascita fino alla morte.
Traslato nell’organizzazione mi ha portato ad elaborare la:

Riflessione # 9
Le persone quando entrano in azienda hanno un sistema cognitivo-organizzativo non elaborato paragonabile allo stadio infantile. A mio parere le aziende devono favorire la crescita e corrispondente sofisticazione del sistema cognitivo di ogni sua persona favorendone la comprensione degli accadimenti e la successiva traduzione in comportamenti. Questo, purtroppo non avviene quasi mai perchè i sistemi di sviluppo e formazione delle aziende si concentrano solo su alcuni soggetti (ad esempio gli alti potenziali) o limitano l’azione a pochi (e ripetitivi) argomenti (ad esempio servizio al cliente o similare). Risultato un’aggregazione di sistemi cognitivi disomogenea con capacità di lettura degli accadimenti parziale distorta e comunque diversa da soggetto a soggetto. Come già detto in un mio precedente articolo si crea una sorta di “babele” cognitiva con persone che non riescono nè a recepire in modo univoco i messaggi dell’azienda nè a comunicare tra loro. Abbandonate a loro stesse vengono lasciate nel migliore dei casi in uno stadio di analfabetismo cognitivo organizzativo, nel peggiore preda di modelli cognitivi errati. Allo stesso tempo, però, le stesse aziende, pretendono in occasione di grandi cambiamenti che tutti siano in grado di comprendere e che mettano in atto i comportamenti desiderati. Non è possibile abbandonare le persone e poi improvvisamente richiedere loro uno sforzo cognitivo, e poi comportamentale, che non abbiamo contribuito a supportare nel tempo.
Aggiungo a questo che supportare, e sottolineo non condizionare, il sistema cognitivo sia uno dei principali doveri dell’impresa.

Game theory e evolutionary game theory
(http://en.wikipedia.org/wiki/Game_theory) (http://en.wikipedia.org/wiki/Evolutionary_game_theory)

Da ultimo non due autori ma due teorie, anzi una ed una sua successiva evoluzione dalle quali ho tratto lo spunto per le:

Riflessione # 10
In una organizzazione le persone che ne fanno parte hanno come principale obiettivo la definizione di un sistema di equilibri tra loro e gli altri attori con cui interagisono attraverso un percorso tipicamente di prove ed errori.
L’equilibrio raggiunto, però, non è sempre la situazione di maggior vantaggio per tutti ma, solo, la migliore possibile stante le informazioni possedute, in particolar modo riguardo al comportamento degli altri. Vale la definizione dell’equilibrio di Nash che è pari alla miglior situazione che posso raggiungere indipendentemente dal comportamento di chi gioca con me. Di conseguenza se non si mettono tutti i giocatori in una condizione di totale trasparenza e visibilità, riguardo alle regole ed ai vincoli di contesto da una parte e obiettivi, intenzioni di “gioco” e comportamenti parziali dei singoli dall’altra, l’utilità complessiva raggiunta sarà sicuramente inferiore a quella massima possibile.
All’interno dell’impresa questo non deve accadere. Non si possono sprecare energie solo perchè non si è in grado di creare un sistema trasparente e si tollerano comportamenti poco chiari: l’utilità massima possibile deve coincidere con quella raggiunta.
Ricollegandoci alla precedente riflessione ogni “giocatore” deve possedere tutte le informazioni e un sistema cognitivo evoluto in grado di elaborarle affinchè metta in atto dei comportamenti funzionali al raggiungimento della utilità massima possibile.
La guerra deve stare fuori dei confini dell’impresa non dentro dove la la filosofia prevalente sia quella del “win win” e non del somma zero.
Un sistema organizzativo di successo deve comprendere la messa in chiaro di comportamenti, intenzioni e soprattutto relazioni affinchè le persone non si sentano abbandonate a se stesse e vivano l’esperienza aziendale come una lotta quotidiana per la sopravvivenza che le svuota e non le motiva nella ricerca della massima utilità ed efficienza per loro e per l’impresa tutta.

Riflessione # 11
Il sistema organizzativo è composto da sottosistemi in movimento, diversi tra loro per gli elementi che li compongono, per le dimensioni e per la velocità intrinseca che li regola, alla ricerca di un punto di equilibrio interno ed esterno. Chi governa l’oganizzazione deve garantire entrambi gli equilibri (uno per ogni sottosistema più quello del sistema complessivamente) e per poterlo fare deve esssere in grado di interpretare correttamente tutti fattori in gioco, statici e dinamici, persone e dinamiche relazionali.

Riflessione # 12
Ogni sottosistema è l’anello di una catena (ritorna la riflessione #1)con proprio spessore e forza che devono essere misurati per valutarne possibilità di durata e resistenza nonchè leve di crsecita. Secondo la teoria dell’anello debole infatti un singolo elemento di una struttura può penalizzare la tenuta dell’intero sistema.
L’organizzazione di successo sa come misurarsi e rafforzarsi per non collassare.

Hello Pitagora: il modello di lettura e di misura

Alla fine di questo ideale percorso concettuale risulta chiaro che l’organizzazione è un sistema complesso che vive nel tempo e che si costruisce sulle persone e su come esse si collegano (aggregano) tra loro.
Governarlo significa leggerlo e avere strumenti idonei per farlo. Ad oggi io personalmente non vedo nessun modello che possa rispondere a tutte le questioni sollevate dalle 12 riflessioni sopra descritte.
Da qui l’idea di costruire un nuovo approccio filosofico prima da cui derivare sia un modello che uno strumento.
Per farlo siamo partiti da:

Gli oggetti del sistema organizzativo
Il sistema organizzativo è l’insieme di persone, processi e regole (valori) espliciti o impliciti
I passi dell’impresa
L’impresa deve fare in modo che tutti comprendano gli obiettivi da raggiungere, sviluppare il sistema cognitivo delle persone affinchè possano crescere nella loro comprensione dei fatti, far fluire il maggior numero di informazioni possibili e, infine creare un sistema di fattori facilitanti l’azione togliendo gli ostacoli.

Lo schema di analisi
Questo si traduce nella definizione dei sottosistemi trasversali al sistema organizzativo (persone processi regole) che dovranno essere in equilibrati tra e dentro di loro. Per

La catena del valore di “Hello Pitagora”

Hello Pitagora definisce pertanto una sua propria catena del valore che diventa la chiave di decodifica di una organizzazione d’impresa. I cinque anelli più uno sono:
– anello uno: obiettivi intesi come necessità non solo di comunicarli ma di farli comprendere (non basta averlo detto ma è necessario essere sicuri di essere capiti) ad ogni componente dell’organizzazione
– anello due: adesione intesa come somma delle singole volontà di aderire all’idea dell’impresa (il sistema di relazione è importante per amplificare o depotenziare la sintonia tra persone e impresa)
– anello tre: capacità intesa come somma delle capacità individuali e come capacità di svilupparne di nuove (in questo sistema è importante sia lo sviluppo della conoscenza della singola persona che la possibilità di contagio e contatto per creare l’intelligenza collettiva)
– anello quattro: comportamenti intesi come i funzionamenti in cui si trasformano le capacità e sono il risultato di un insieme di fattori, il saper fare e la voglia di fare (anche in questo caso è importante il sistema di relazioni che si crea che diventa abilitante o inabilitante al pari del sistema di regole e prassi che può facilitare o ostacolare)
– anello conque: risultati sono la misura del valore prodotto dall’azienda dal punto di vista qualitativo e quantitativo

A questi cinque abbiamo ritenuto aggiungerne un sesto

– anello sei sensibilità sociale che misura la capacità dell’impresa di produrre valore non solo per se stessa ma per la comunità sociale in cui è inserita. L’azienda che ha una visione di lungo termine infatti non può trascurare chi gli sta attorno e creare con loro un sistema di equilibrio virtuoso.

Il funzionamento di “Hello Pitagora”

Abbiamo visto che il nostro modello crea una sua catena del valore con sei anelli, dopodichè va a misurare la consistenza (forza) di ognuno per costruire il complesso dei di base.
L’utilizzo e la ricombinazione di questi dati ci fornirà un sistema di indici in grado di misurare l’efficienza complessiva dell’organizzazione e delle parti che la compongono, inidrizzandoci verso le azioni di miglioramento più corrette e più funzionali alla massimizzazione del valore.

Questo argomento, quali indici e quali i significati, unitamente ad un maggior approfondimento degli anelli della catena saranno il tema di un prossimo articolo.

Il pensiero “circolare”: ampliare la comunicazione

27 Feb

Mentre nel mio articolo “postato” precedente ho provato a dimostrare perchè l’incompetenza non rientra tra i lussi che ci possiamo permettere, adesso vorrei provare a dare qualche risposta sul fronte opposto.

Come le imprese possono sfruttare tutta la ricchezza di competenze e idee che possiedono?

Senza dubbio il primo passo consiste nel capire il reale valore dei propri “asset” a partire dal capitale umano ingaggiato, per poi individuare gli strumenti per farlo esprimere nella sua interezza.

Seguendo Amartya Sen (http://it.wikipedia.org/wiki/Amartya_Sen)  nel suo ragionamento sulla trasformazione delle “capacità” in “funzionamenti” ci focalizziamo sulle criticità insite nel passaggio da “capitale teorico posseduto”  a “capitale espresso erogato”: in una parole dalle idee pensate alle azioni.

Il mio non vuole (non può) essere un trattato di psicologia, territorio nel quale sono straniero, ma semplicemente una riflessione “pratica”, spero utile a chi si occupa di Persone nelle imprese, sulle possibilità di creare organizzazioni in grado di utilizzare al meglio l’energia intellettuale di tutte, e sottolineo tutte, le donne e gli uomini che ne fanno parte.

Esprimere le idee infatti permette di confrontarle con altre, per confermarle,  modificarle o arricchirle, ma soprattutto consente il loro  passaggio, tanto caro a A. Sen, nel mondo dei fatti.

Un’idea inespressa o, peggio, espressa male penalizza fin da subito il processo di produzione del valore di un’impresa. Ogni organizzazione deve quindi, per non vanificare la sua ricchezza, concentrare le proprie forze lungo la sua “linea aurea” (golden line): pensare –  esprimere – concettualizzare- comunicare – agire- misurare,

Partiamo dall’inizio: la concettualizzazione del pensiero. Le organizzazioni non hanno sempre il tempo e la competenza per dedicare a questo delicato momento la giusta: alcune lo fanno limitando il coinvolgimento a pochi, concentrando gli sforzi sul management o sui cosidetti alti potenziali. Sono purtroppo rare, ma, fortunatamente sempre di successo, le realtà che ne comprendono l’enorme importanza e vi dedicano tempo e risorse adeguate.

La maggior parte, invece, si affida, acriticamente allo strumento immediato, che vedono come unico: il linguaggio, parlato o scritto, rimanendo intrappolate nel suo paradosso paradosso: non è il pensiero che sceglie e adatta il linguaggio ma, al contrario, è quest’ultimo a vincolarlo imbrigliandolo forzosamente nelle sue regole.

Perchè (o forse meglio dire in che senso)?

H.G. Shands ( Shands HG, The war with words – Mouton The hague – Paris 1971) afferma che il linguaggio ci prescrive di ordinare i dati in maniera lineare e ci costringe ad adottare universalmente un modello causa-effetto. La realtà del nostro mondo e del pensiero è, però, profondamente diversa, segue logiche circolari che includono una molteplicità di aspetti interconnessi tra loro senza alcun legame di tipo gerarchico causale.

Poichè però il linguaggio, continua H.G. Shands, esige soggetto predicato e complemento oggetto pensiamo che questo possa essere l’unico modo di esprimere le nostre idee (pensieri). Così facendo molte delle risorse creative vengono perse e lasciate nella nostra mente prive di una forma di espressione.

Sebbene l’obiettivo di questo mio scritto non sia l’analisi dei meccanismi cerebrali (che non sono la mia materia nè competenza) proverò ad esprimere una mia opinione, intuitiva ed empirica in merito.

Ritengo che un pensiero, nella sua fase pre-formalizzata, sia influenzato da una pluralità di fattori: articolazioni logiche, emozioni, sensazioni estemporanee, impressioni consolidate, conoscenza consapevole e inconsapevole, esperienza vissuta o appresa etc.. Elementi che si contaminano l’un l’altro, si combinano e ricombinano seguendo logiche particolari, che si strutturano in noi nel tempo attraverso una apprendimento interno ed esterno (autoapprendimento ed apprendimento eterodiretto, consapevole ed inconsapevole ).

Questo mi porta ad immaginare la fase della concettualizzazione esplicita, sia essa verbale o scritta, come una sorta di griglia, con maglie più o meno larghe, all’interno della quale il flusso del pensiero passa e viene filtrato, se non addirittura modificato  dalle convenzioni linguistiche, a volte anche locali e contestuali (nel senso di peculiari dell’impresa) e ricondotto ad una forma, non naturale, lineare di causa ed effetto.

A supporto di ciò provo a fare due considerazioni.

La prima è riguardo alla differenza tra i vari modi di comunicare: alcuni infatti riescono pienamente a trasferire in chi ascolta o legge il loro pensiero trasmettendo non solo suoni (o parole) ma sensazioni, emozioni ed esperienze etc..

Pensiamo a scrittori geniali della storia o contemporanei che ci avvolgono con il loro racconto e ci portano nella  loro realtà utilizzando perfettamente il linguaggio come strumento (assoggettato al pensiero) e non come fine (che domina le idee).

Proviamo ad immaginare se nelle nostre aziende tutti potessero avere questa capacità, quante idee potrebbero diventare visibili e quante potrebbero trasformarsi in “funzionamenti”  e incrementare la produzione di valore.

Il problema non sta quindi nelle idee, le potenzialità della mente umana è infinita ma nella capacità che ognuno di noi nell’esprimerle, e prima ancora di esserne consapevole.

La seconda osservazione è relativa al “non verbale” che, a mio modo di vedere è uno dei tentativi che la mente mette in atto per provare a supererare i limiti del linguaggio convenzionale. Come se il flusso del nostro pensiero cercasse di uscire da una gabbia a maglie strette.

Anche il non verbale, che comunque in azienda viene disperso e non trasformato in intelligenza e conoscenza collettiva, però non è sufficiente, non potendo veicolare  efficacemente immagini, sensazioni, conoscenza inconsapevole o ciò che potrebbe essere importante ma noi diamo per scontato.

La maggior parte di noi ha quindi delle potenzialità inespresse, direttamente proporzionale alle capacità mentali ma inversamente proporzionale a quelle di espressione.

Questo per me ha sempre significato l’ansia da foglio bianco: la sensazione (a tratti inconscia) di possedere un pensiero circolare, completo in ogni suo aspetto unita alla frustrazione di non poterlo trasferire in un foglio (reale o virtuale che sia) per condividerlo: “è talmente tanto ciò che ho in mente da trasmettere che non so da che parte iniziare”.

Considerazione che vale, con le ovvie distinzioni, per altri strumenti di comunicazione diversi dal contatto diretto quali telefono, videoconferenze e similari.

Si potrebbe obiettare che il problema risiede nella capacità di chi ascolta. Probabile ma per prima cosa non saperlo (senza agire) non risolve il problema e poi insegnare ad trasmettere significa contemporaneamente migliorare il ricevere.

Molte aziende , a volte più per tendenza che per reale convinzione, hanno affrontato questo tema diversificando le attività di formazione: il teatro d’impresa, formazione outdoor, programmi di pensiero creativo e similari.

Iniziative che hanno sì il pregio di provare a superare, la costrizione del linguaggio lineare, ma che hanno dei limiti strutturali.

Il primo,  comune a tutte le attività formative, consiste nell’essere episodi circoscritti nella vita di una azienda che non riescono a trasformarsi in consuetudine e incidere realmente sulle prassi comunicative. Ad oggi infatti sono tipologie attività troppo lontane e diverse dal normale procedere aziendale che vengono percepite dai partecipanti come “prassi di aula” non replicabili nel lavoro giornaliero.

E paradossalmente più vengono concepiti come straordinari (finalmente facciamo qualcosa di diverso …) più velocemente saranno dimenticati.

L’altro limite, che spiega in parte il primo (inapplicabilità), è che sono attività che coinvolgono pochi e per tempo limitato; non attraversano l’organizzazione, nè in senso verticale nè orizzontale, e la fanno diventare una specie di babilonia dove per un certo frangente di tempo convivono due linguaggi con pochi punti di contatto e con forze diverse (enorme dovuta a consuetudine il lineare, debole dovuta a novità il circolare).

Così il linguaggio circolare soccombe e viene così quasi istantaneamente dimenticato.

Due le obiezioni possibili: il mondo va avanti da secoli col linguaggio lineare, non vi è motivo per cambiare adesso e, forse, non è necessario che tutti siano “circolari”, potrebbero infatti bastare pochi leader “circolari” a condurre gli altri “lineari”.

Niente di più sbagliato.

Il mondo è infatti progredito solo grazie a persone geniali e “circolari” (alcune note molte altre sottotraccia) che per le loro capacità intellettive superiori son riusciti ad immaginare ciò che non esisteva e a trasmetterlo al resto dell’umanità: Leonardo da Vinci oppure Einstein, persone che hanno saputo esprimere e comunicare la loro astrazione.

Si potrebbe ulteriormente obiettare che in azienda non dobbiamo rifare la teoria della relatività, ma produrre fatturato, e l’alfabetizzazione circolare è un costo che potrebbe non valere il risultato.

Altro concetto errato. Steve Job non è stato forse un genio circolare che ha saputo, con questa sua capacità, cambiare la sua industria e produrre valore? Oppure  Mark Zuckerberg che ha costruito sul linguaggio circolare il fattore chiave di successo del suo social network, realizzando rilevanti risultati di business.

Va poi aggiunto che le imprese non hanno i tempi e gli strumenti dell’umanità, la quale  può aspettare il singolo genio per avere un contributo di progresso e può contando sul fatto che su qualche miliardo prima o poi qualche centinaia di geni emergerà (legge dei grandi numeri). Le aziende no, non possono aspettare e affidarsi al caso (che da qualche parte farà nascere un genio) ma devono ricorrere al metodo.

Chi, oggi, si può permettere di lasciare inespresse le proprie potenzialità? Piccole o grandi, verso prodotto o verso processo.

E’  necessario studiare ed applicare un nuovo piano di alfabetizzazione per tutti i livelli e per  tutte le componenti organizzative, che sia continuo nel tempo.

Quanto fatto finora assomiglia all’esperanto, un linguaggio artificiale insegnato a pochi ed in malo modo, morto ancora prima di nascere.

Ma come?

La logica ci dice che la parola scritta sia ineludibile e che rimarrà a lungo tempo lo strumento base (con integrazioni multimediali) per comunicare e gestire la conoscenza in modo univoco e non interpretabile. L’immagine (o il suono)  infatti può avere significati diversi per chi la emette e per chi la riceve, una parola, o meglio una frase limita la discrezionalità (pur cadendo nell’impoverimento lineare).

Pertanto non dobbiamo cambiare lo strumento ma utilizzarlo diversamente, al meglio, assoggettandolo al pensiero e non viceversa, arrivando alla parola solo dopo che il pensiero sia emerso nella sua pienezza.

Rendiamo, quindi, le persone consapevoli di possedere un pensiero circolare, facciamo capire loro che ci interessa la loro intelligenza le loro idee, chiediamo loro di esprimerle, ma, soprattutto aiutiamole a farlo.

Diamo loro tempo e strumenti per sviluppare il senso di astrazione e concettualizzare tutte le componenti del loro pensiero.

Come dice Alberto Oliveiro (http://it.wikipedia.org/wiki/Alberto_Oliverio) nel numero di novembre 2012 della rivista “Mente” , l’analisi di un costrutto (lui parla di figura) complesso richiede uno sforzo massiccio per il nostro cervello e una notevole mobilitazione di reti ed aree nervose. Richiede una estensione della mente che non può limitarsi al solo utilizzo delle parole.

Noi dobbiamo essere in grado di passare da una realtà interiore ad una realtà esteriore permettendo alla nostra mente di esprimersi per esteso.

Sempre A. Oliveiro (nello stesso articolo)  sostiene che la possibilità di disegnare di creare un bozzetto possa essere “una maniera per esteriorizzare le immagini, variarne la struttura percepirle in modo nuovo, una strategia che non riguarda solo l’arte ma che fa parte di un più vasto uso della cosidetta << mente estesa>>”.

Questo concetto (mente estesa) si riallaccia al pensiero dello psicologo J.Bruner (http://it.wikipedia.org/wiki/Jerome_Bruner) che  sostiene che gli esseri umani utilizzano amplificatori delle proprie potenzialità nel processo di costruzione della mente per creare sistemi cognitivi, le cui capacità son superiori a quelle del puro e semplice cervello.

Questo significa che nelle organizzazioni ci sono potenzialità inespresse infinite quanto infiniti sono i pensieri ingabbiati nelle menti non “estendibili” delle persone che vi appartengono.

Senza dubbio questa è la nuova frontiera della leadership manageriale: oltre la “mente lineare visibile” verso la “mente circolare estesa”.

Tutti la possediamo e tutti la possiamo utilizzare nel lavoro che svolgiamo.

Mettere le persone nelle condizioni di potersi esprimere al meglio portando valore all’impresa è il vero fattore motivante per le persone. Se è vero che ognuno di noi vive per costruire relazioni e trovare all’interno di esse un premio, l’impresa è un insieme di relazioni che devono premiare i contributi di valore. Le imprese che non lo fanno avranno solo una piccola percentuale del potenziale che pagano.

Dobbiamo creare aziende “circolari” dove le persone si trovino a loro agio nel:

– pensare alla propria circolarità e sforzarsi di rendere al meglio il loro pensiero esteso;

– utilizzare tutte le forme possibili per amplificare ed estendere la mente;

– analizzare la realtà organizzativa interna e di mercato esterna in termini circolari non  fermandosi all’evidenza più chiara da ricondurre alla ragione più semplice, andando “oltre” sia riguardo a se stessi che a ciò che osservano fuori.

Una doppia azione orientata all’hardware e al software: creare ambienti e clima circolari, strumenti e valori e soprattutto intelligenza estesa.

Non è semplice ma questa è la vera frontiera del management che deve mettersi in gioco in prima persona con l’esempio personale sapendo andare oltre le convenzioni “lineari” e plasmando la sua realtà aziendale attorno a questo concetto.

L’impresa circolare provvederà ad adibire spazi, creare momenti, strutturare sistemi premianti, coinvolgere donne e uomini in questa nuova idea e innovare vecchie pratiche manageriali come la  “fabbrica delle idee”, spesso utili solo a far finta di far qualcosa, integrandole con attività di alfabetizzazione “circolare”.

Non si può chiedere, infatti, alle persone di esprimere una idea senza insegnare loro come si fa e fornirgli strumenti adeguati. Equivale a mettere la mano fuori dalla finestra sperando che in quel momento cada qualcosa di buono.

Sarà anche opportuno rivedere il concetto di alti potenziali fin qui cercati e gestiti con un paradigma di lettura lineare: curriculum (studi e incarichi), età,  capacità di mettersi in mostra etc.

Forse è il momento di iniziare a leggere le persone nella loro circolarità alla ricerca del loro reale contributo, senza fermarsi alla superficialità della causa/effetto, quanto produce quanto vende quanto costa etc etc,  individuando la loro capacità di influenzare anche indirettamente e trasversalmente il processo di produzione del valore.

E questo vale sia sul versante performance che da quello del potenziale.

Chi è circolare chi potrebbe diventarlo.

Concludo con una domanda. Se dovessimo chiedere ad un gruppo di persone di immaginare la loro visione dell’azienda e tradurla in attività concrete quale sarebbe l’approccio circolare?

Partire dai processi che gestiscono, dalle loro responsabilità?

Forse così facendo limiteremmo la produzione di idee inducendo loro a concentrarsi dapprima sui possibili compiti individuali per poi eventualmente risalire agli obiettivi dell’impresa lasciando per strada (a meno di casuali e non ripetibili intuizioni) dei contributi importanti che non stanno sulla linea, processi strategia.

Nei prossimi articoli proveremo ad approfondire i due concetti di Organizzazione circolare e Leadership circolare, ovvero come mettere in pratica tutto questo.

L’incompetenza: un lusso che non possiamo più permetterci

27 Feb

Ogni sistema sociale (azienda, gruppo, organizzazione etc) crea e mantiene al proprio interno un nemico che, estremamente pericoloso, è in grado di mimetizzarsi e ostacolare in modo vischioso la capacità di produrre benessere (o più in generale di valore).

E’ l’incompetenza, il cui significato parte dalla mancanza del “sapere” fino ad includere la distonia tra le persone ed il sistema, i suoi valori etici, le sue regole morali e comportamentali.

Un nemico potentissimo. Ne basta una piccola quantità e il più forte dei sistemi soccombe, annaspa alla ricerca di un equilibrio che possa compensare questa negatività bruciando energie che, invece, servirebbero a produrre benessere.

E se questo vale sempre ed in generale proviamo a immaginare quanto sia rilevante in un’organizzazione d’impresa in un momento nel quale i margini di manovra, qualsiasi manovra, sono strettissimi e non consentono neanche il più piccolo degli errori.

L’allargamento dei confini dei mercati di riferimento, la comparsa di concorrenti scalpitanti e aggressivi, incattiviti dalla loro lunga permanenza nelle retrovie (paesi emergenti) e dal continuo diminuire delle risorse disponibili, si traduce in una competizione più dura (minore la posta in palio, maggiori aspiranti) che impone la messa in gioco di tutte le risorse a disposizione.

Diventa quindi importante per un’impresa (ma discorsi analoghi dovrebbero essere fatti per qualsiasi sistema sociale, scuola, enti amministrativi, comunità non profit etc) comprendere quali sono le risorse sulle quali può contare e quali le condizioni per sfruttarle al meglio.

Funzionale a questo è quindi la riflessione di T. Davenport il quale ci suggerisce di uscire dall’obsoleto, e se si vuole limitante concetto di persone uguali a risorse (umane) per allargare la nostra idea alle persone quali proprietarie di risorse: quasi un gioco di parole in realtà un salto logico culturale

Le imprese (o un qualsiasi sistema sociale) devono uscire dalla illusione di poter disporre delle risorse solo perchè presenti al suo interno, e quindi pensando di poter concentrare i suoi sforzi solo nell’iniziale processo di acquisizione o tuttalpiù allargandoli successivamente (e spesso superficialmente) a qualche attività di sviluppo.

Diventa necessaria la presa d’atto che per avere le risorse ci si deve confrontare con una serie di processi decisionali, uno per ogni soggetto coinvolto, legati alla loro messa in gioco.

L’impresa di successo è quindi quella che riesce ad avere prima e ad impiegare poi nel migliore dei modi tutto il capitale umano a sua disposizione, eliminando i vincoli togliendo gli ostacoli, ogni ostacolo.

Il disegno organizzativo dovrà incentrarsi su alcuni punti chiave: la comprensione delle competenze che servono davvero, la chiara espressione degli obiettivi e i modi per far esprimere tutte le energie senza la minima dispersione. Il focus viene assunto da una nuova entità non scindibile, composta da capacità, orientamenti etici, e comportamenti.

E’ impossibile separare ciò che si è in grado di fare dalla voglia di farlo e dalla possibilità di farlo: l’insieme di questi tre fattori porterà valore (o disvalore) all’impresa e non, come forse era più comodo pensare, il contributo parziale e disaggregato di ognuno di essi. Utilizzare tutte le risorse significa, come ci insegna il premio Nobel A. Sen, quindi costruire la propria azione di indirizzo e di gestione (manageriale) partendo dalla comprensione delle capacità (insieme di cosa so fare e cosa voglio fare) e delle libertà necessarie per trasformarle in funzionamenti.

Perchè quindi l’incompetenza diventa un lusso oggi mentre non lo era prima? La seconda parte della domanda, alla quale ho già implicitamente risposto è oltremodo banale: la combinazione di meno risorse in palio con la crescita degli attori in gioco.

Ma è sulla prima parte che mi voglio soffermare, sull’azione vischiosa che l’incompetenza (intesa in senso allargato di inadeguatezza culturale e valoriale) produce e che rallenta, a tratti inibisce, la produzione di valore.

Di nuovo iniziamo con un’ovvietà, tanto banale quanto disattesa dalla maggior parte delle organizzazioni: a risorse finite il gioco è a somma a zero, una negatività toglie spazio ad una positività. Altrettanto comprensibili sono gli effetti negativi derivanti da decisioni sbagliate, un tempo rimediabili con un aggravio di costi, assorbibile con le maggiori risorse a disposizione, oggi non più.

Meno banale e visibile possono essere i danni indiretti  dell’incompetenza sulla produzione del valore e precisamente sui fattori “voglia di fare” e possibilità/libertà di fare.

L’incompetenza di alcuni spesso non è innocua o silente ma agisce, a volte sopra (buonafede) più spesso sotto (malafede) la soglia di visibilità, con una costanza ed una precisione che spesso la competenza non possiede. L’incompetenza, infatti, crea disorientamento, inquina la comprensione degli obiettivi, i modelli valoriali e comportamentali, offusca la trasparenza del processo di costruzione del valore. Chi è incompetente è consapevole di esserlo e sopperisce a questa sua lacuna con una forza ed un’intensità tali da sovvertire il sistema di valutazione, ciò che è negativo è più visibile e nasconde il positivo. Le persone quindi vengo fuorviate e deviate dalla produzione di valore e orientano il proprio potere decisionale per la messa in gioco delle loro risorse verso obiettivi diversi e non coerenti con quelli attesi e definiti. La voglia di fare viene meno, cala il livello di tensione verso il risultato atteso viene sottratta l’energia per costruire e, a volte nei casi più gravi, viene messa in campo energia negativa per distruggere: valore neutro o disvalore. Anche il cosa so fare viene impattato perchè il disorientamento tocca anche il processo di sviluppo della propria competenza, vero e unico cuore pulsante della crescita.

Ma il vero impatto negativo della non competenza o (inadeguatezza), consiste in tutte le azioni che le imprese devono mettere in atto per neutralizzarla. E’ paradossale, infatti, come le imprese, ma lo stesso potrebbe dirsi per tutti gli altri sistemi sociali, di fronte all’incompetenza invece di scegliere la via più breve consistente nell’eliminarla (o ancora più semplicemente di non acquisirla) decidono di costruire un sovrasistema a complessità infinita e crescente per neutralizzarla.

Succede, quindi, che si creino sistemi di prassi e regole, che si trasformano in valori che si traducono in comportamenti che nel migliore dei casi comportano solo un sovra-costo, ma nel peggiore (e purtroppo nel più frequente) diventano un insieme di libertà negative preciso ed efficace nell’inibire le energie positive. Un esempio? Pensiamo ai livelli organizzativi, ai controlli dei controlli alle infinite “forche caudine” decisionali che le aziende (e gli altri sistemi di governo) introducono al loro interno per impedire che le incompetenze impattino negativamente. Paradossale osservare che a quel punto il danno è già fatto: l’incompetenza agisce anche senza agire.

Balza quindi evidente agli occhi quanto può essere il costo dell’incompetenza ancor prima che essa produca decisioni sbagliate o devianze al processo di produzione del valore.

Facciamoci una domanda, prendiamo il primo sistema sociale di impresa di governo o di qualsiasi tipo che ci viene in mente e analizziamo quante posizioni organizzative e quante regole (o prassi) esistono non per creare ma per neutralizzare, calcoliamone il primo costo quello diretto e già abbiamo una indicazione del primo margine lordo dell’incompetenza (o inadeguatezza).

L’incompetenza è quindi un male subdolo non necessario, vischioso ed ambiguo, che dobbiamo solo eliminare: neutralizzarlo non serve anzi peggiora.

Per eliminarla però bisogna devono esserci coraggio e onestà intellettuale: è necessario che chi sta a capo dell’organizzazione sia in grado di chiarire ciò che, relativamente a quella organizzazione ed i suoi obiettivi, è competenza  e ciò che non lo è, di pensare non al rischio che si assume facendolo ma al fatto che non può non farlo.

E’ indispensabile parlare chiaro alle persone e con coerenza separarsi da chi non è coerente con i valori e gli obiettivi attesi dell’impresa ma con altrettanta coerenza premiare chi invece aderisce al suo progetto.

Si deve assumere la serenità di giudizio e la capacità di comunicarlo e di applicarlo in modo coerente, senza esitazioni e compromessi.

Il costo dell’incompetenza è quindi direttamente proporzionale al costo dell’irresponsabilità. Non ce lo possiamo più permettere, le energie vanno canalizzate per produrre valore senza alcuna dispersione. Semplice no?